Intervista di Alice Zorzin. Foto di Matteo Trevisan
La porta d’Europa vista con gli occhi del reporter goriziano Matteo Trevisan
Ad agosto 2018, dopo aver concluso il master in fotogiornalismo all’ISFCI di Roma, Matteo Trevisan parte insieme al reporter aquilano Danilo Balducci per Bihać, cittadina bosniaca al confine con la Croazia, dove si presumeva passasse il nuovo percorso della “rotta balcanica”, la strada attraversata da migliaia di migranti che dal Medio Oriente e dall’Asia tentano di raggiungere l’Unione europea. Da quest’esperienza e da un successivo viaggio intrapreso assieme alla giornalista inglese Megan Iacobini è nato un importante racconto visivo. Intitolato “The door to Europe” e apparso su importanti testate come The New York Times, Vice e Left, esso mira a descrivere l’attesa e le umiliazioni, fisiche e morali, a cui sono costretti i profughi che tentano di varcare la soglia per la libertà.
Nonostante siano passati quattro anni dalla conclusione di questo reportage, il lavoro di Trevisan è ancora estremamente attuale. Per questo abbiamo deciso di parlarne insieme al suo autore.
Ciao Matteo, partiamo subito con le domande: cosa ti ha spinto a partire?
Nel 2018 il percorso della rotta balcanica era cambiato, la Serbia aveva chiuso i confini e i migranti avevano trovato un varco alternativo in Bosnia-Erzegovina dove, girava voce, fossero nati dei campi non ufficiali e che la polizia croata utilizzasse la violenza per fermare chi cercava di oltrepassare il confine. Al tempo le notizie in merito non erano così diffuse e nessuna ONG operava sul territorio quindi ho deciso di partire insieme a Danilo Balducci per capire se le informazioni che giungevano in Italia fossero vere.
E cosa hai trovato una volta arrivato?
Mi sono trovato immerso in una situazione di estrema precarietà, una sorta di limbo in cui le persone bivaccavano per mesi o addirittura per anni, trovandosi la strada per l’Unione europea bloccata. Ho constatato quindi la veridicità delle voci che arrivavano in Italia.
Ora una domanda di tipo organizzativo che può aiutare chi come te vorrebbe intraprendere delle esperienze del genere. Come sei passato dalla teoria alla pratica? com’è stato possibile realizzare il reportage?
In realtà siamo partiti senza troppe informazioni e, una volta arrivati, abbiamo cominciato ad esplorare il luogo, facendoci guidare dagli stessi profughi che incontravamo e cui con cui iniziavamo a parlare. In questo modo siamo venuti a conoscenza del primo campo non ufficiale, ospitato in un ex scuola, bombardata e poi abbandonata, in cui vivevano più di mille persone senza acqua né corrente. Successivamente abbiamo scoperto che lungo tutto il confine bosniaco-croato erano nati luoghi simili a questo. Mentre quando sono tornato nel dicembre del 2018 i campi erano diventati luoghi di accoglienza ufficiale e per entrarvi abbiamo dovuto chiedere dei permessi alle organizzazioni che li gestivano.
Avrai sicuramente ascoltato un sacco di storie durante la tua permanenza al confine, tutte molto toccanti e profonde, ma tra le tante qual è quella che ti è rimasta più impressa?
Ce ne sono diverse. A Bihać vieni continuamente bombardato da storie di persone che hanno voglia di raccontarti le loro vite. Per esempio tra questi c’era un ragazzo iraniano della mia età, costretto a scappare dal suo paese perché minacciato di morte a causa dei testi rap che scriveva, considerati scomodi dal governo. Mi ricordava un mio amico di Bologna, quindi incontrarlo è stato come rivedere un conoscente.
Il reportage comparso sulle testate è a colori, perché quando l’hai presentato sotto forma di progetto hai sentito l’esigenza di utilizzare il bianco e nero?
Per esigenze introspettive. Per me quella sulla rotta Balcanica è stata un’esperienza fondamentale, nonché la mia prima vera esperienza sul campo, un’occasione di grande riflessione ma anche di sofferenza. La scelta del bianco e nero è scaturita dai sentimenti che ho provato durante la realizzazione del reportage. Una cosa in particolare mi ha fatto pensare molto: da casa mia a Bihać ci vogliono quattro ore in auto ma ci sono persone che ci mettono mesi o anni per percorrere lo stesso tratto a piedi.
Tra tutte le fotografie che compongono il progetto ce n’è una in particolare che mi ha colpita e di cui vorrei parlare. Ci presenti la panoramica di un bosco pieno di tende da campeggio e con una serie di sacchi a pelo distesi per terra. Di che cosa si tratta? Raccontaci qualcosa in più su questo scatto.
Volevamo ritrarre i campi prima che i profughi si svegliassero quindi li abbiamo visitati all’alba. Quelli all’interno dei sacchi a pelo sono tutti ragazzi tra i sedici e i diciotto anni, partiti assieme dal paese d’origine e che l’indomani mattina avrebbero provato ad oltrepassare il confine. Non trovando posto all’interno delle tende hanno deciso di accamparsi all’aperto, dormendo uno accanto all’altro in modo da scaldarsi a vicenda. Volevo far capire che in queste situazioni si creano dei legami indissolubili. Ci sono persone che partono insieme e che rimangono assieme nonostante tutto.
Ora passiamo alle domande difficili. Si dice che i fotoreporter, debbano essere in grado di mantenere un certo distacco emotivo nei confronti delle situazioni a cui si stanno approcciando, pensi di esserci riuscito?
Secondo me è impossibile non venire coinvolti. Mangiavo con le persone che incontravo, ascoltavo le loro storie quindi era inevitabile non creare dei legami. Credo che una fotografia possa definirsi “buona” quando all’interno ci sei tu quindi devi necessariamente essere dentro a ciò che stai raccontando. Solo così puoi andare a fondo in una questione.
Sei tornato a casa con più risposte o più domande?
Con molte più domande. Ero partito per trovare delle risposte ma sono tornato molto più critico nei confronti della società e dei media, soprattutto su come vengono descritti o meglio “dipinti” i fatti. L’unica cosa di cui ero certo era di voler continuare con la fotografia, anche se ci ho messo un po’ a riprendermi da quest’esperienza.
A proposito di questo, a cosa stai lavorando ora?
Sto ultimando un progetto a lungo termine intitolato “We are still dreaming”, dedicato ai giovani under trenta del movimento NO TAV che vorrei diventasse un libro e sto anche continuando un lavoro relativo all’area del fiume Isonzo, iniziato diversi anni fa per fare pace con casa mia e che ora sta prendendo una forma più documentaristica.
Qui il sito per vedere i lavori di Matteo