Sarebbe bello se la fotografia potesse risvegliare la nostra indignazione e al tempo stesso restituire dignità a coloro che vivono ai margini di questa società. Non è facile, ma ci si può riuscire. E’ questa quella che Giulio Di Meo ama definire la sua fotografia: il solo modo per comprendere le storie delle persone che si incontrano per le strade del mondo, catturarle e restituirle dignitosamente agli occhi di chi non piange più quando si imbatte in una immagine che dovrebbe emozionare.
Giulio, quando hai appeso al collo la prima macchina fotografica?
Ho cominciato a fotografare con i primi viaggi, da adolescente. Mio padre aveva questa passione e, già da piccolino, mi portava con lui nella camera oscura. Poi mi prestava le macchine fotografiche, quindi avevo la fortuna di avere in casa un padre che avesse non solo la passione, ma anche un’ottima attrezzatura: usavo già a 16 anni una sua Nikon F301. Immediatamente dopo è stato fondamentale il viaggio, non riesco a scindere le due cose.
Il tuo tipo di fotografia però non è paesaggistica…
No, esatto. La differenza dal primo al secondo viaggio è sostanziale. Nelle prime foto c’è solo ed esclusivamente paesaggio, a volte io o gli amici che erano con me; già nelle foto del secondo viaggio è esattamente il contrario: il paesaggio è scomparso, ci sono solo persone. E mi trovavo in Messico, dove ignorare quello che si ha intorno è assai difficile. Nella fase intermedia avevo cercato di documentare alcuni rituali in campagna, come l’uccisione del maiale. Fotografie piuttosto macabre, ma venivo invitato a casa della persone del paese, così le persone sono poi diventate il soggetto principale delle mie foto.
Scattavi già allora in bianco e nero?
Scattavo a colori. Ho iniziato come la maggior parte dei fotografi della mia generazione. Poi sono passato al bianco e nero.
E quando hai sentito il distacco dal colore, se un distacco c’è stato…
Per la verità ho scattato sempre sia a colori che in bianco e nero, ma se prima il rapporto era 80 a 20, adesso si è irrimediabilmente invertito. Paradossalmente il bianco e nero sottrae qualcosa alla realtà, ma le regala dell’altro… la rende poetica. E credo che, in ogni caso, la fotografia sia sempre un’interpretazione della realtà. Non c’è cosa più soggettiva del nostro guardo e dei nostri occhi.
Tu continui a scattare principalmente in analogico, è così?
Io sono nato nell’era della fotografia analogica, quindi ho davvero difficoltà a lasciarmi andare al digitale. Credo sia la stessa cosa che capita oggi ai ragazzi che usano il digitale quando si tenta di convincerli a riscoprire i sali d’argento. Riconosco che per loro sia una cosa nuova, come per me i pixel.
Poi subentra un fattore emotivo, io penso che con la fine dell’analogico sia finita essenzialmente la “poesia” della fotografia. La poesia era per me l’attesa, quella curiosità di voler vedere sviluppate le fotografie e di riguardarle solo dopo qualche mese per lasciar passare il trasporto e l’influenza che le situazioni hanno su di noi. Oggi, per esempio, il fatto di poter guardare subito nel display è un vero peccato, il fotografo è troppo preso dalle situazioni e fa una scelta che domani sarebbe stata sicuramente diversa.
A volte scatti 40 fotografie e speri che siano venute bene, preghi d’aver colto quell’espressione, che l’altro soggetto non si sia girato… poi vedi il provino e magari nessuna di quelle foto è venuta bene, ma allontanandoti da quella situazione ne avevi scattata un’altra che scopri bellissima. Questa è la magia della fotografia. Il digitale nella sua immediatezza ha perso questo fascino.
E ci improvvisiamo tutti fotografi…
E viene a mancare la professionalità. Diminuisce soprattutto l’etica, i valori fondanti di una professione. Perché se uno fa il fotografo e lo fa con criterio, al di là del settore (matrimonio, moda, reportage sociale), dovrebbe essere pagato per il lavoro che svolge, perché ci mette tutto se stesso. I prezzi stracciati denigrano la professione.
Tuttavia, da un altro punto di vista non meno importante, il digitale ha dato la possibilità a tutti, o quasi, di potersi esprimere attraverso uno strumento. La cosa più bella della fotografia è proprio questa espressione di se stessi e delle strade del mondo.
Cos’è questa storia della foto solo in orizzontale?
Cerco di non scattare in verticale, è vero. A parte i ritratti dove forse il verticale aiuta. Però in genere nel reportage preferisco l’orizzontale, perché i nostri occhi vedono in orizzontale. Pensa anche al video, figlio della fotografia. Non ho mai visto un video in verticale (ride).
Però in nessun caso sono così estremo. A volte giro anch’io la macchina fotografica.
Mi ha influenzato moltissimo. Soprattutto sull’idea di propormi come fotografo. Ha avuto una grossa influenza sulla mia fotografia, ma la cosa più importante che mi ha trasmesso, più dell’insegnamento tecnico e compositivo, è stato l’insegnamento etico. Ernesto mi ha sempre detto di andare avanti per la mia strada e non scendere mai a compromessi. Non vendermi per niente al mondo, perché avevo talento e dovevo prendermene cura.Anche tu sei un fotografo poeta?
No no, io sono proprio da marciapiede (ridiamo).
Ti riferisci al reportage sociale, immagino…
Si, anche se secondo me oggi abbiamo ottenuto poco con il reportage sociale, tutte le immagini di guerra che abbiamo visto negli ultimi 40 anni non hanno fatto altro che assuefarci al dolore e alla morte. Dovremmo provare a cambiare punto di vista.
Cosa vuoi dire…?
Io sono convinto che si possano denunciare delle cose, ma in modo diverso e direi più umano. Voglio dire, le ultime foto vincitrici del world press photo sono tutte immagini di morti ammazzati, feriti e sangue. Una volta c’era il dolore, ritratto in un certo modo però. Il compito del reporter è quello di documentare e di sensibilizzare, allora fermiamoci un attimo e chiediamoci se ci siamo riusciti. A me pare di no.
Oggi se pensiamo all’Africa pensiamo al bambino con la pancia gonfia e con le mosche che gli girano intorno, un po’ di sabbia. Andava bene negli anni ’60-70, quando ci si stupiva davanti ad una foto di questo genere. Ma se oggi noi non proviamo più niente vedendo alcune immagini, vuol dire che non va bene. Se non raggiungiamo il nostro scopo di sensibilizzare, dobbiamo cambiare obiettivo.
C’è un problema di fondo, avendo lavorato con le agenzie io so cosa si può vendere e cosa non si può vendere, purtroppo i giornali e gli editori vogliono quel genere di fotografia.
Si, basta partire dal basso. Ma vogliamo – parlo di noi fotografi – raggiungere un obiettivo concreto? Perché altrimenti non ha senso niente. Io non sono un illuso, ma se riesco a sensibilizzare dieci persone su un problema allora ho raggiunto il mio scopo. E posso farlo anche se racconto la vita quotidiana della favelas senza ritrarre mai la droga e lo spacciatore, perché non è tutto lì. Anche il signore fermo al bar vive nella favela.
Se io scatto delle immagini, realizzo un piccolo calendario, lo vendo e riesco a mettere da parte qualche soldo da destinare in beneficenza, allora ho davvero raggiunto un obiettivo. Non c’è solo la mostra per sottolineare “quanto sono bravo”, a che serve?Che consiglio daresti ad un giovane se ti dicesse che vuole fare il fotografo nella vita?
Io sono un privilegiato perché sono libero di scegliere i miei reportage. Lavoro solo a progetti miei. Invece capisco che chi vive di fotografia è costretto a scende a compromessi con le leggi del mercato. Ecco perché consiglio di farlo solo per passione. Mi piace parafrasare De Andrè che diceva, sull’amore, “c’è chi lo fa per noia, chi per professione, chi lo fa per passione”. Prima di tutto fatelo per passione, poi le cose vengono da sole. E’ l’amore che uno mette nelle cose che fa la differenza.http://www.giuliodimeo.it/