di Giulio Di Meo
Iniziamo con una domanda classica, quando hai iniziato a interessarti di fotografia?
Fin dall’età adolescenziale. Quella Pentax Spotmatic di mio padre, dentro casa era il mio desiderio. Qualcosa che associavo all’età adulta. Il giorno in cui mio padre me la fece usare mi sentii una persona grande e la sensazione provata nel maneggiarla e scattare le prime foto fu di pura serenità. Io persona pratica, amavo studiare la tecnica fotografica sulle riviste di allora (Il fotografo, Tutti fotografi, Reflex) e poi mettere in pratica subito quello che avevo letto. Era un vero spasso e un divertimento unico, seguito poi dalla “depressione” quando andavo a ritirare i rullini sviluppati. Nella fase tecnica della fotografia sono sempre stato un autodidatta.
Perché hai scelto il fotogiornalismo?
Perchè raccontare storie per portarle a chi non ha modo di vederle o di viverle e suscitare riflessioni è una grande responsabilità e a me piacciono le responsabilità!
Qual è stato il tuo primo lavoro?
Il mio primo vero lavoro è stato [IM]POSSIBILE. Un lavoro a più mani sullo sport per i diversamente abili. Fu il lavoro più concreto, sviluppato e progettato che avevo mai realizzato. Se devo andare ancora più indietro, una serie di fotografie di daily life ad un parente alla lontana in un paesino vicino Roma. Quello era il tempo del BN e delle camera oscura. Percorso fondamentale per essere arrivato a quello che sono oggi.
Com’è nato e come si è sviluppato il lavoro “MiRelLa”?
Nasce per caso, come per caso arrivano le malattie e finisce come finisce una malattia che non ha cura. Poi posso anche dire che nasce nel momento in cui realizzo che l’Alzheimer non è più una malattia che riguarda solo le persone anziane e li capisco che c’era il bisogno di andare a raccontarlo. Inizialmente focalizzato sulla malattia, MiRelLa si sviluppa, prende forma corpo e voce nel momento in cui mi rendo conto che il vero lavoro era Mirella, moglie di Luigi affetto dal morbo di Alzheimer. Aver fatto un lavoro su Mirella mi ha permesso di realizzare un lavoro che non è un lavoro sulla malattia ma qualcosa che va oltre. Dentro MiRelLa, c’è la vita di tutti noi, fatta di amore, speranza, sogni, ricordi, vita e morte.
Nella tua carriera professionale hai puntato molto sulla parte didattica, quando e perché?
Insegnare è uno stimolo fondamentale per me. Ogni singolo ragazzo che è passato dai miei corsi o workshop mi ha dato sempre qualcosa. C’è uno scambio continuo. Nei miei corsi la figura docente studenti si abbassa, e si raggiunge un livello di parità fatto di scambi e di crescita. Molti dei ragazzi che hanno studiato con me oggi sono amici e alcuni di loro hanno iniziato o stanno iniziando percorsi professionali importanti che gli stanno portando anche soddisfazioni. E i loro traguardi, le loro soddisfazioni sono per me motivo di orgoglio. Devo dire che dal WSP Photography la scuola a Roma che ho costituito insieme ad altri 3 amici in primis oltre che fotografi, ogni anno escono ragazzi decisamente pronti ad affrontare in maniera professionale il mondo della fotografia.
Che consigli daresti ai giovani che si avvicinano a questa professione?
Che è una delle professioni più complicate che esistono in maniera particolare in Italia. E che con il passare del tempo, con i social, gli smartphone e la fotografia digitale in generale le cose andranno a peggiorare. Tutte cose da mettere in conto anche per testare la passione. Si è disposti a rinunciare a molte cose per realizzare quel sogno? Ecco questi potrebbero essere i consigli che potrei dare ai giovani. Guardarsi dentro, essere sinceri e trasparenti con se stessi e domandarsi se veramente si è disposti a mettersi in gioco, perché la strada è dura e piena di grandi ostacoli da superare e che oltre ad una smisurata passione ci vuole veramente tanta determinazione.
Oggi, anche nel fotogiornalismo, c’è una tendenza a curare molto la parte estetica. Secondo te si possono coniugare insieme reportage e ricerca artistica?
Assolutamente si ma questo non deve essere una regola o un ossessione. Ci sono lavori importanti dove emerge di più il contenuto e lavori in cui emerge di più l’estetica mantenendo comunque un contenuto. Se la ricerca estetica o quella artistica è fine a se stessa a quel punto non ha senso. Diventa solo un voler apparire. Poi bisogna capire anche che cosa si intende per ricerca artistica. Tante volte ho sentito parlare di ricerca artistica quando invece a volte si trattava “semplicemente” di traducibilità visiva.
Si è discusso molto di Steve McCurry e delle sue foto ritoccate. Che cosa pensi della postproduzione? Qual è il confine da non oltrepassare?
Il confine da non oltrepassare è semplicemente la propria coscienza e il patto con lettore. Purtroppo tante volte pur di “essere” si bistrattano entrambi i valori ed ecco che escono fuori i pastrocchi. Per quello che mi riguarda non aggiungerei o toglierei mai elementi dalle mie fotografie ma questo non significa non postprodurle. Ora poi c’è anche un po’ un esasperazione verso la postproduzione, basta andare a guardare le regole introdotte dal World Press Photo per partecipare al concorso e si ha un po’ la sensazione che il senso, il contenuto, l’importanza di un lavoro rischia di essere giudicato solo a seguito di una postproduzione “etica”.
Secondo te esiste un futuro per questa professione?
Si assolutamente, ma di certo non sarà quello di oggi che alla fine non è quello di ieri. Insomma tutto scorre ma di certo questa professione resterà ancora per un bel po’ di anni.
Quali sono i progetti a cui stai lavorando e quelli per il futuro?
Ho finito da poco un long term che è durato 6 anni sugli impatti dei grandi investimenti in Etiopia a seguito della costruzione dell’attuale più grande diga costruita in tutta l’Africa. Il progetto Omo Change, che sono riuscito a concludere grazie ad un grant della Fondazione Yves Rocher, oltre ad interessare l’Etiopia, arriva anche in kenya sul lago Turkana diventando così un progetto che vuole far riflettere su come l’uomo sempre più centrato sul denaro non rifletta più sul lungo tempo ma si ferma sul tutto, ora, subito. Omo Change è una denuncia sui grandi cambiamenti ambientali in essere. Progetti futuri, tanti, da libri, mostre e nuovi progetti fotografici che magari questa volta mi vedranno impegnato in Europa.