di Giulio Di Meo
La fotografia siciliana è legata a doppio filo al genere del reportage, così come alla foto di cronaca che quasi mai si esaurisce in se stessa e scava nel background dell’apparenza. Una tradizione che ha origine nell’immediato dopoguerra e che troverà il suo apice nella stagione dei fotografi del giornale “L’Ora” di Palermo durante gli anni Settanta. Autori come Nicola Scafidi, cantore delle lotte contadine e testimone della criminalità agraria, o Letizia Battaglia e Franco Zecchin, fotocronisti per antonomasia negli anni delle più cruente guerre di mafia, non erano soltanto abili produttori di immagini in nome e per conto di una testata giornalistica; al contrario, il frutto della loro opera oltrepassava i confini della “nera” e mirava a costruire una narrazione plurigenerazionale della storia siciliana nella sua dimensione quotidiana, restituendone la bellezza, quanto la brutalità e il dolore.
Nel solco tracciato da questa fucina di talenti si innesta e matura la poetica di Ernesto Bazan, che presto volge lo sguardo su un’altra isola ugualmente segnata da profonde contraddizioni, ma animata da una grande umanità: Cuba. “Trilogia cubana” sarà il titolo della mostra che il 29 luglio aprirà i battenti presso lo spazio espositivo dei Cantieri culturali alla Zisa di Palermo: “Dopo tanti anni in giro per il mondo sento che la mia ricerca è arrivata alla fine. La Sicilia e Cuba sembrano coincidere come due pezzi di un puzzle”, confessa lo stesso Bazan. Un lavoro, quello cubano, che si dipana lungo un arco di quattordici anni – esclusi gli otto dedicati all’auto-produzione – per un totale di tre differenti corpus di fotografie, confluiti in altrettanti libri. Immagini disseminate di amore, riconoscenza e rispetto nei confronti di un’isola che il fotografo palermitano avverte come profondamente sua e della quale tesse un accorato racconto che non esige né di spiegare né di modificare, bensì di testimoniare in maniera soggettiva una realtà vissuta come oggettiva. Alla maniera di Robert Frank, che nel suo “Les Americains” stravolge e alterna diversi linguaggi fotografici ottenendo un multilinguismo funzionale a più livelli di lettura, Bazan varia scelte stilistiche: dal bianco e nero di “Bazan Cuba” al colore di “Al Campo”, approdando al taglio panoramico di “Isla”, mantenendo pur sempre inalterata la sua devozione alla pellicola. Visioni diverse della realtà, al tempo stesso indipendenti ma parte del medesimo e intenso abbraccio che Ernesto tributa all’orgoglio del popolo cubano.
Abbiamo incontrato Ernesto per una lunga chiacchierata, per parlare dell’imminente mostra siciliana e della sua fotografia. Allora Ernesto partiamo con le domande?
Prima di rispondere ci tenevo a dire che è un grande piacere essere intervistato da te, Giulio, che sei da anni e prima di tutto un caro amico, un compagno di avventure fotografiche e di vita e anche uno dei miei primi studenti che, con grandi sforzi e sacrifici, è diventato un maestro di fotografia amato e apprezzato dai suoi studenti. Grato per quest’opportunità che la vita ci regala.
Trilogia Cubana, tre progetti distinti e molto diversi che diventano un unico, articolato e complesso racconto di Cuba, è così?
Credo che stia proprio nella loro diversità l’unicità dei tre lavori svolti durante un esteso arco di tempo, durante il quale ci siamo anche conosciuti all’Avana. Aggiungerei anche l’importanza che dall’inconsapevole realizzazione di ogni corpo di lavoro siano nati tre libri così diversi fra loro, ognuno dei quali esprime una diversa sensibilità di sentire la vita sia mia sia dei cubani che ho avuto il privilegio di fotografare per tanti anni.
Come sono nati questi progetti e come si sono sviluppati?
Per primo è nato il lavoro in bianco e nero realizzato con una macchina fotografica da 35 mm che iniziai nel primo viaggio a Cuba nell’autunno del 1992 e che ho continuato fino alla fine della nostra permanenza sull’isola nel luglio del 2006: quattordici anni di vita e fotografia. Poi sono seguiti Al Campo e Isla, entrambi iniziati, quasi per caso, nel 2001. Ogni progetto si è sviluppato in maniera indipendente: il primo, Bazan Cuba, scattato interamente con pellicola in bianco e nero, riflette il mio approccio viscerale per l’isola e la sua gente che sentivo molto vicina…probabilmente perché vengo anch’io da un’isola, per il cognome spagnolo che mi porto addosso e perché ritengo di avere vissuto a Cuba in un’altra vita. Se non fosse stato così sarebbe inspiegabile quest’amore a prima vista così intenso e che è perdurato per oltre un decennio.
Al Campo nasce per il mio amore per la campagna e i contadini cubani che mi ricordavano tanto le terre e la gente della mia isola: la Sicilia. Rappresenta l’unico lavoro realizzato a colori e costituisce uno spartiacque nel mio lavoro perché da questa esperienza ho incominciato a capire l’importanza di riuscire a trovare poesia non solamente nella gente ma anche nelle nature morte, nei paesaggi, negli interni di case. Questo lavoro, realizzato esclusivamente con pellicola di negativo a colori, ha “rivoluzionato” la mia maniera di sentire la vita e ha profondamente influenzato tutto il mio lavoro successivo in America Latina e in Italia.
Con Isla, la macchina fotografica panoramica ha cambiato la mia maniera di scattare, aprendomi nuove opportunità. Sto ancora cercando di decifrare cosa stia facendo con questo nuovo strumento. Isla rappresenta il primo corpo di lavoro coerente che ho scattato con quest’apparecchio. L’ho utilizzata come una macchina fotografica qualsiasi. Mi sono semplicemente abituato a riempire l’inquadratura in maniera totalmente diversa. Il formato panoramico ha accresciuto la mia visione del paese, di come fosse diviso fra la luccicante versione ufficiale che lo Stato si ostinava a presentare agli occhi del mondo e la disadorna vita reale fatta di stenti, sforzi, sofferenze e gioie isolate.
Ci racconti un aneddoto particolare o un evento che ti ha particolarmente colpito durante i tuoi “vagabondaggi” cubani?
La grande generosità della gente pronta a invitarci nelle proprie case e a condividere sempre il poco che aveva, fra cui il prezioso, delizioso caffè. Ho perso il conto di tutti i caffè che mi sono stati offerti nelle case cubane.
Quanta Sicilia ritroviamo nei tuoi scatti cubani?
Tantissima. La mia maniera di sentire scaturisce dalla mia infanzia siciliana, del vivere e sentire la vita in maniera forte, amplificata. Arrivando a Cuba per la prima volta sentì che mi apparteneva, che stavo ritornando a “casa”. Una sensazione chiara e rara al contempo. Come mi piace dire: “sono il fotografo che sono grazie al fatto d’essere nato in Sicilia e, in maniera particolare, a Palermo.
Da anni lavori anche sulla tua terra. Presto vedremo pubblicato un lavoro sulla Sicilia?
Per il momento altri progetti hanno priorità nel calendario previsto per i prossimi anni ma sicuramente, alla fine, arriverà anche il momento per condividere il lavoro sulla mia terra.
Ritorniamo a Trilogia Cubana. 35mm, bianco e nero, colore, formato panoramico…un modo per metterti alla prova, per sperimentare? Quanto è importante rimettersi in gioco e cercare nuovi stimoli?
In realtà, più che mettermi alla prova, ritengo che la trilogia sia il frutto del grande amore nutrito per l’isola e la mia curiosità che mi spinge sempre e inconsapevolmente a ricercare altri linguaggi fotografici con cui esprimermi.
Bazan Cuba, Al Campo, Isla: tre libri di reportage o di ricerca artistica? O entrambe le cose? In questo caso si possono coniugare insieme queste due cose?
Credo che ogni libro esprima in maniera diversa come ho sentito la mia vita cubana, la vita dei cubani e dell’isola in un determinato momento. Preferisco che siano gli altri ad analizzare, giudicare il mio lavoro. Con il passare del tempo ritengo che sia stato già un grande privilegio aver potuto pubblicare la trilogia durante la mia vita.
Per tutti e tre questi libri hai scelto la strada dell’autoproduzione. Sei diventato editore di te stesso. Perché questa scelta? Quali sono stati i vantaggi e quali le difficoltà?
Dopo aver dedicato quattordici anni della mia vita lavorando nell’isola, il mio intuito mi consigliava d’evitare gli editori tradizionali con cui avevo avuto delusioni dopo la pubblicazione dei miei primi due libri. In maniera istintiva, quasi mistica, decisi d’intraprendere il cammino dell’autoproduzione fondando assieme a molti dei miei studenti la casa editrice BazanPhoto Publishing. Ai tempi l’unica cosa chiara era auto-pubblicare Bazan Cuba. Sorrido pensando che, con il generoso aiuto di tanti dei miei studenti, siamo riusciti a pubblicare non solo il primo ma anche gli altri due libri della trilogia e, in seguito, i primi due libri di fotografi di grande talento, entrambe donne, che hanno studiato assieme a me: Willard Pate e Barbara Peacock. Qualche giorno fa dicevo ai miei studenti che i workshop, la casa editrice, le borse di studio e altri progetti futuri che ancora sconosco fanno parte di un disegno più grande, voluto dall’energia che mi accompagna da sempre e di cui incomincio lentamente a vedere meglio i contorni. In futuro contiamo di pubblicare altri libri sia miei sia di questi fotografi che stanno dimostrando una loro visione intima e personale della vita. Siamo molto ottimisti e non vediamo l’ora che vengano alla luce.
Come vedi la situazione editoriale in Italia e quali secondo te le differenze con il mercato americano?
In America esiste una maggiore cultura fotografica e quindi un maggior numero di case editrici rispetto all’Italia, ma poter pubblicare significa sempre di più non solo fare salti mortali per riuscire a creare un corpo di lavoro che valga la pena pubblicare. Adesso, quando incontri i rappresentati delle case editrici per la revisione del tuo lavoro, e se sei hai la fortuna di incontrare il loro interesse, ti chiedono se hai i fondi per pubblicarlo. Viene naturale porsi la domanda qual è allora il loro ruolo. Per questo motivo il self-publishing prende sempre più piede in tutto il mondo e i fotografi preferiscono diventare editori di se stessi. Se il lavoro è valido, nonostante le enormi difficoltà di raccolta dei fondi, di diffusione e di distribuzione, i libri prodotti indipendentemente incominciano ad avere successo. Penso ai tuoi libri che, coraggiosamente e con una profonda convinzione politica, sei riuscito non solo a pubblicare ma anche a raccogliere dei fondi da donare a gruppi solidali legati alla gente fotografata. La mia trilogia cubana, dopo enormi sforzi e sacrifici, ci ha dato e continua a darci tante soddisfazioni assieme ai libri prodotti di recente: With Animals di Willard Pate e Hometown di Barbara Peacock. L’idea è di continuare per questa strada. Stiamo lavorando alla realizzazione di un micro network empatico e solidale che chiameremo Mighty Ants, Formiche Possenti, che ci permetterà di raccogliere i fondi per questi futuri libri e garantire una capillare distribuzione a livello mondiale, facendo affidamento al crescente numero di fan, sostenitori e amici che da anni segue e supporta il mio lavoro editoriale.
Qual è stato il tuo percorso formativo? Sei nato come fotogiornalista e poi come si è evoluto il tuo percorso? Oggi ti senti più reporter o “poeta”?
Francamente, nonostante abbia lavorato per oltre vent’anni per le riviste e seguito delle news, mi sono sempre sentito molto più “poeta” come dici tu. I miei lavori recenti sono più propensi a cogliere gli aspetti lirici della vita nelle sue epifanie più semplici. Più tempo passa e più diventa evidente che questa sia la mia vocazione che spero di poter continuare a seguire negli anni a venire assieme all’insegnamento che diventa sempre più spirituale. Con mia grande gioia la “famiglia” creata assieme a molti dei miei studenti continua a crescere.
Ti considero uno dei miei maestri, quali sono stati i tuoi? E quali sono state le figure di riferimento?
Quando mi viene fatta questa domanda, l’unica persona cui posso pensare è sempre la stessa: Robert Frank. Ho avuto il piacere di conoscerlo personalmente e ha confermato le mie aspettative: un uomo umile, profondo, sensibile che mi ha ricevuto in pigiama in camera da letto e che s’è preso il tempo di sfogliare con calma il mio primo libro su Cuba che gli avevo portato in regalo. Un uomo che è riuscito a sopravvivere a momenti difficili e che coraggiosamente ha seguito il suo destino. Un fotografo che dopo due anni di viaggi negli Stati Uniti ci ha fatto vedere un paese inedito. Il suo libro rappresenta per me e per molti altri una nuova maniera di guardare la vita: da dentro, facendo sentire allo stesso tempo come si sentiva lui rispetto al paese, e alla gente, e come si sentivano gli abitanti di questo paese ad essere fotografati da lui. A parole sembra facile ma renderlo fotograficamente è molto difficile.
Nella tua carriera professionale hai puntato molto sulla parte didattica, quando e perché?
È stato un altro segnale “dall’alto”, in un momento in cui il lavoro editoriale diventava sempre più noioso. Presi questa decisione avventata nel 2002, senza sapere se sarei stato un buon maestro o come avrei fatto a far venire degli studenti fino a casa mia all’Avana. Quasi per magia arrivarono e continuano a venire sedici anni dopo. Mi piace dire che dopo avere creato la mia famiglia, i workshop sono la cosa migliore che ho fatto nella mia vita. Hanno impresso al mio lavoro una nuova metodologia che nel corso degli anni mi ha permesso di poter creare nuovi lavori ritornando negli stessi posti per tanti anni e dandomi l’opportunità di approfondire microcosmi di vita, universi intimi di gente e animali che, fortunatamente per loro, non faranno mai notizia. Con i workshop sto aiutando a forgiare fotografi che si faranno conoscere per la profondità e la spiritualità di cui è intriso il loro lavoro.
Che consigli daresti ai giovani che si avvicinano a questa professione?
Di farlo solamente se mossi da una profonda passione, nonostante viviamo in un mondo superficiale legato alle apparenze. Con l’avvento del digitale è diventato più difficile riuscire a diventare fotografi ma è ancora possibile se si ha grinta, determinazione e molto talento.
Tu continui a scattare solo in analogico, ma cosa pensi del mondo digitale?
Dal punto di vista dell’immediatezza ti risolve molti problemi come fotografo. Anche dal punto di vista didattico aiuta tantissimo gli studenti a potermi mostrare le loro foto, giornalmente, durante un workshop.
Dico sempre che li ammiro per essere in grado di scattare le loro foto nel giro di poche ore e di fare un editing accurato da cui poi possiamo fare un successivo editing più severo. Le poche volte che ho scattato in digitale mi è risultato difficile. Sono abituato ad attendere per mesi prima di vedere le fotografie. Sento la necessità di creare questa distanza fra il momento della ripresa e quello di vedere i risultati. L’attesa mi aiuta ad allontanarmi dall’attaccamento emotivo dei momenti fotografati. Spero di poter continuare a scattare in analogico per il resto della mia carriera.
In Italia ultimamente si è discusso molto di Steve McCurry e delle sue foto ritoccate. Che cosa pensi della postproduzione? Qual è il confine da non oltrepassare?
Avere una propria etica professionale. Come in camera oscura si possono fare tagli – anche se io ne faccio molto pochi – si possono scurire e schiarire aree all’interno di una foto, ma eliminare oggetti, persone, pali della luce è inaudito.
Da anni il fotogiornalismo vive un momento di profonda crisi. Cosa ti senti di dire ai reporter più giovani che si affacciano oggi a questa professione?
Di continuare a credere nei propri ideali e a perseverare nel desiderio di voler raccontare storie che necessitano d’essere condivise.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Da anni sto lavorando al libro forse più difficile per la vicinanza ai soggetti: la mia famiglia e i primi cinquantasette anni di vita. È il progetto con la gestazione più lenta: quasi sette anni. Spero di poter “partorire” Before You Grow Up… il prossimo anno. È una sorta di album di famiglia e di libro fotografico dove, per la prima volta, mescolo foto ricordo, foto passaporto, foto scattate con l’iPhone e disegni che si mescolano con citazioni, pagine di diario, pensieri e ricordi. Nel 2018 continueremo con la pubblicazione dei libri di fotografi che hanno studiato sotto la mia guida pubblicando The Labyrinth di Juan de la Cruz, oltre dieci anni di lavoro sulla sua visone unica del proprio paese, il Messico, e Latin Americas di Giorgio Negro, un lavoro intimo e personale su questa terra piena di magia e profonde contraddizioni. Poi nel 2019, per festeggiare i miei sessant’anni, pubblicheremo i primi tre Canti Latino Americani dedicati alla città di Salvador nello stato di Bahia in Brasile, che ho definito la mia nuova Avana.
Tra qualche settimana inaugurerai a Palermo una grande mostra sulla Trilogia Cubana. Prima di salutarci mi dici perché non solo fotografi e appassionati dovrebbero vedere queste immagini?
L’esposizione che inaugureremo allo ZAC di Palermo, il prossimo 29 luglio, è una mostra che afferma la vita di un popolo in un momento unico e difficile della loro storia che in qualche maniera sento che appartenga un po a tutti noi per le emozioni e i valori umani che le foto esprimono e affermano.