“Alfredo Bini ha trovato nel reportage sociale la propria personale forma di espressione” Vorrei partire da questa definizione che scrivi sul tuo sito internet e chiederti di spiegarla. Che cosa significa per te, fare reportage sociale?
Ahaha, devo ricordarmi di aggiornare il sito. Infatti quella frase adesso è: “..fotografava per passione prima di trovare nel reportage la propria personale forma d’espressione..” Ho deliberatamente eliminato “reportage sociale” perché lavorando mi sono accorto che tutti i reportage sono “sociali.” La fotografia di reportage è per definizione “sociale”, proprio perché è uno strumento attraverso il quale si mostra la vita delle persone, l’interazione tra loro o con l’ambiente. Diciamo che personalmente prediligo concentrarmi su reportage che affrontano situazioni che ritengo sbilanciate, cioè dove alcuni diritti per noi scontati non sono rispettati o presi in considerazione.
Quando è iniziata la tua avventura fotografica e cosa ti ha spinto ad iniziare?
Un viaggio che feci in Messico a vent’anni ridestò la curiosità e il desiderio di scoprire che la vita di provincia aveva attenuato. Non mi sono più fermato e qualche anno fa ho lasciato il vecchio lavoro per dedicarmi tutto il giorno, tutti i giorni alla fotografia. Mi riempiva di soddisfazione l’idea di poter mostrare agli altri ciò che vedevo e come lo vedevo e avendo sempre fotografato fin da piccolo fu naturale usare questo mezzo. Anche se ogni tanto scrivo. Talvolta mi si svelano situazioni emozionali che non riesco sempre a trasporre in fotografia. A volte non ne ho proprio il desiderio perché mi godo il momento e allora con la parola riesco a farlo anche dopo un po’ di tempo. Ovviamente questo non succede quasi mai quando lavoro. Parlo di situazioni quotidiane.
Che percorso formativo hai seguito? (se lo hai seguito) e a chi ti sei ispirato?
Ho avuto l’impagabile privilegio di poter frequentare il TPW dei primi tempi. Quello dove la voglia degli studenti di diventare fotogiornalisti sovrastava tutto il resto. Dove il confronto tra gli studenti era ancor più stimolante delle lezioni degli insegnati o delle riprese sul campo. Feci tre workshop in tre anni differenti . Non molti per la verità, ma quando riuscivo andavo a San Quirico o Buonconvento e mi vedevo le proiezioni serali. Era molto stimolante. Il mondo passava da lì.
Non ho mai seguito nessun autore in particolare. Leggevo molto il National Geographic perché mi piacevano le storie che pubblicavano e avevo più tempo libero, quindi la mia fotografia all’epoca credo ne risentisse. Mi ricordo che Yamashita fece un lavoro su Marco Polo che mi stimolo a ritornare nel Gansu in Cina quando pensai il primo viaggio esclusivamente in chiave fotografica. Rimane tutt’ora uno dei più belli che ho fatto, e ci sono legato per molti motivi. Pubblicai le foto durante i disordini Tibetani del 2008.
Perché il reportage sociale? Soprattutto in questo momento di mercato, cosa ti spinge a partire?
Se dovessimo considerare il mercato questo è un mestiere che non andrebbe mai fatto. È mal pagato, rischioso, t’impegna per molto tempo, richiede preparazione tecnica oltre che una buona base culturale. Insomma un cattivo affare che fa si che non mi ponga troppo il problema. Mi spinge altro. La voglia di conoscere e capire un po’ di più il mondo in cui vivo e forse me stesso. Fare approfondimento e reportage, soprattutto in Italia, implica lo stare almeno uno o due anni senza grandi entrate e richiede al contempo risorse per realizzare lavori interessanti per avere visibilità e poter accedere cosi ad assegnati e redazioni che producono reportage. E questi lavori devi giocarteli bene perché altrimenti rischi di rimanere senza fondi prima d’aver attirato nuovi contatti o commissionati.
Come nasce l’idea per un tuo lavoro? Quanto è studiato prima e quanto si modifica in loco sulla base degli eventi che si susseguono?
Non c’è una regola. Gli stimoli per un nuovo lavoro possono arrivare da tante fonti diverse. Un libro, un articolo di giornale, uno spettacolo teatrale. Proprio il lavoro sui migranti iniziò ad entrarmi nel sangue quando assistetti alla rappresentazione teatrale di alcuni passaggi di un libro che parlava d’immigrazione. Il mio stomaco fu smosso dall’enfasi della recitazione e dalla musica, un po’ come le prime immagini televisive della scorsa primavera araba. Quella per me è la sensazione ideale per partire. Con lo stomaco in movimento! Un po’ come un appuntamento con qualcuno che ti piace molto.
Ovviamente se ne ho il tempo mi documento il più possibile e approfondisco l’argomento con ricerche d’informazioni e contatti. Poi una volta sul campo cerco d’usare queste informazioni per lasciarmi guidare da quello che trovo, sforzandomi di non perdere di vista il risultato finale che però può discostarsi anche molto dal progetto iniziale.
Ci racconti un aneddoto particolare o un evento che ti ha particolarmente colpito durante i tuoi viaggi? Questo evento ti ha insegnato qualcosa? E se si, cosa?
Sarebbero tante le situazioni, i personaggi, i colleghi di cui parlare. I giorni d’attesa a Niamey prima di partire per il deserto, Camara l’immigrato Guineano al quale pagai il viaggio di ritorno, il primo morto in Libia, l’esplosioni delle bombe. Quelle si che ti smuovo lo stomaco. Cheng il capitano d’un improbabile peschereccio Koreano che ci ha portato a Misrata, un personaggio davvero da leggenda. I colleghi, i giornalisti con i quali ho lavorato. Devo però molto ad Aboubakar Kiemdé il mio fixer Burkinabè che con pazienza mi ha insegnato a viaggiare in Africa. Per quasi un mese attraversammo il suo paese da Nord a Sud. Professore di Liceo, 4 figli e una bellissima moglie, è morto lo scorso Dicembre per una febbre reumatica non diagnosticata in tempo. Una malattia che si cura con banali antibiotici e cortisone e che confesso sono dovuto andarmi a cercare la definizione su Wikipedia per capire cosa fosse. Questa è la fortuna d’esser nati dalla parte “giusta” del mondo. Nel 2009 quando lasciai il Niger feci 1000 km per poterlo salutare a Ouagadougou e a dire il vero anche per evitare i controlli all’aeroporto di Niamey. Stemmo insieme solo una notte ma mi ricordo quel giro in motorino per le strade polverose di Ouagà come fosse adesso. Parlammo di filosofia, Budda e Islam (era musulmano) e del suo desiderio di venire in Europa per vedere il mare. Nel frattempo era diventato preside e aveva una moto nuova. Era molto felice e soddisfatto.
Reportage sociale significa entrare in relazione con i soggetti che fotografi, come concili il bisogno di portare a casa un lavoro con l’etica. O se preferisci, cos’è l’etica in fotografia per te.
A mio avviso non esiste una differenza tra l’etica in fotografia e quella che normalmente dovresti avere nella vita. Per me non dovrebbe esserci distinzione. Come fotografo a volte posso apparire un po’ brusco, ma è anche vero che non ci si può relazionare in Africa con la stessa flemma che useremmo in Norvegia, i tempi di lavoro si dilaterebbero enormemente. Però in qualsiasi situazione devi capire il limite d’invasione dello spazio altrui. Devi capire cioè quando è il momento di smettere e passare oltre e aver ben chiaro che le persone vanno rispettate. Ecco se proprio devo dargli una definizione, l’etica in fotografia per me è il rispetto verso la persona che si fotografa, rispetto che ti guadagni ricercando una relazione interpersonale che ti permetta di capire l’altro. Che ti guadagni con il tempo impiegato per entrarci in relazione o che a volte è frutto di una sintonia che percepisci fin dal primo momento.
Quando sei veramente soddisfatto del lavoro che porti a casa?
Non credo d’esser mai tornato soddisfatto del mio lavoro una sola volta. Ho sempre l’impressione che manchi qualcosa, che sarebbe stato possibile fare di più e questo credo dipenda dal fatto che viviamo nella cultura delle parole piuttosto che delle immagini, quindi hai l’impressione che le fotografie non riescano a raccontare tutte le parole che ascolti o leggi su una storia. Ne parlavamo con Anthony Suau a Perpignan. I giornalisti in questo sono più avvantaggiati rispetto a noi. Oltre ad avere una maggior considerazione professionale, per raccontare ad esempio una battaglia di uno scenario di guerra non devono necessariamente essere sulla front line. Il fotografo invece si, deve starci in mezzo, ma non sempre riesce a produrre buone immagini in quelle situazioni.
Parliamo di Zenga Zenga, lavoro che mi ha colpito particolarmente e che concilia il video e la fotografia, regia e montaggio. Questa scelta (video e foto) da cosa è dettata oppure: perché questa scelta rispetto al reportage di sole foto + testo?
M’è sempre piaciuta la deriva multimediale nella documentazione reportagistica e credo che in alcuni casi aiuti molto a capire tanti aspetti del contesto in cui è fatto il lavoro. Ho l’idea che un’intervista in viva voce messa sotto delle immagini che scorrono, sia più efficace e restituisca maggiormente il senso di realtà rispetto a un pezzo scritto. E poi ci sono situazioni in cui non è possibile farne a meno. Proprio in Zenga Zenga la sparatoria sotto l’hotel era troppo rischiosa da fotografare. C’erano tre colleghi che tornando in hotel erano finiti sotto il tiro dei cecchini e scendere in strada per fotografare significava essere esposto a tua volta al rischio di prendersi una pallottola. Il video restituisce i suoni, l’azione, le immagini dei traccianti, l’esplosioni. Ci sono tante informazioni che aiutano a sopperire ad immagini che iconograficamente non sono irresistibili.
Oggi, il fotogiornalismo per sopravvivere alla crisi dei nostri tempi deve adattarsi a nuove forme di espressione come il video?
Non penso che la crisi del fotogiornalismo sia causata dall’inadeguatezza del mezzo espressivo, ma penso che dipenda soprattutto dal decadimento della capacità critica dei lettori causata dalla ridotta qualità dell’informazione che ha abituato le persone a non pensare troppo, a non riflettere. Per fornirti un’informazione, la fotografia deve esser letta e impone una riflessione, il video può esser guardato passivamente. La vicinanza al modello televisivo al quale le persone sono abituate, la sua immediatezza e i nuovi mezzi di fruizione come tablet e smart phone, sono all’origine secondo me della popolarità dei contenuti video e multimediali.
Tu cosa pensi di questa situazione, e secondo te ci sarà una via di uscita? – Cosa fa la differenza qualitativa?
Credo che esistano media che fanno ancora un ottimo lavoro. Mandano i loro inviati a documentare le situazioni più diverse nei quattro angoli del mondo e lo fanno con progetti che sono frutto di un’approfondita conoscenza dell’argomento che è all’origine della differenza qualitativa. Mi viene in mente uno degli ultimi lavori pubblicati dal Time sulla rotta di Ibn Batuta. Cinque fotografi hanno ripercorso i luoghi e le gesta di questo leggendario esploratore Marocchino contemporaneo di Marco Polo. Ne è venuto fuori un lavoro completo, bello e interessante. Pur con tutte le difficoltà imposte dall’attuale situazione economica, ci sono ancora giornali che producono contenuti pensati per rendere un servizio al lettore, che poi dovrebbe essere l’obbiettivo principale di qualsiasi impresa che fa informazione. Spesso in Italia si pensa che se da noi le cose vanno male, lo stesso succeda anche per gli altri, ma io non sono d’accordo. Lo Spiegel online ha mandato in assegnato per quattro volte un fotografo e un giornalista in Libia. Da noi devi essere contento se i siti online ti pagano le fotografie.
Se puoi parlarne, quale sarà la tua prossima missione?
Ricevo sempre tanti di quelli stimoli che a volte faccio fatica a gestirli tutti. Il mio prossimo lavoro sarà in corno d’Africa. Lo sto programmando da tempo e partirò non appena se ne sarà andata questa fastidiosa febbre che s’è materializzata proprio pochi giorni prima della partenza.
Ci congedi con un messaggio per tutti i giovani che vorrebbero essere al tuo posto?
Faccio fatica a pensare che qualcuno vorrebbe essere al mio posto. Ancora non credo di avere una posizione professionale particolarmente invidiabile. Anzi. Certo, questo lavoro l’anno scorso m’ha permesso di passare da un party in Olanda dove bevevo birra insieme ad Alberto di Monaco, a un pranzo a Ryad con dignitari Sauditi, presidenti e ambasciatori di mezza africa, ai bivacchi degli Shabab rivoluzionari Libici. Non riesco a pensarne altri che consentano di spaziare tra situazioni così diverse tra loro e credo sia il motivo del suo fascino. I giovani devono credere in ciò che fanno perché solo così potranno essere disposti a sacrificare molte delle loro energie.
Questo è un lavoro che ti assorbe l’anima ancor prima del fisico e del tempo e non puoi farlo se non ci credi fino in fondo. Se si vuole avere la speranza un giorno di “arrivare”, non ci sono vie di mezzo e rimanere costantemente concentrati è la cosa più difficile, perché implica il poco spazio rimanente per tutto il resto.