Witness Journal 73

In questo numero di WJ si parla di: riti religiosi in Calabria, autismo, resistenza del popolo Saharawi, il buddismo in Myanmar, fotografia "mobile", Sri-Lanka, Rwanda, sport e resistenza civile

WJ73 cover | Fotografia di Giulio Di Meo
WJ73 cover | Fotografia di Giulio Di Meo

Non solo Charlie Ebdo

La pubblicazione dei report 2015 sulla libertà di stampa, redatti da Freedom House e da Reporters without borders, come di consueto ha suscitato più di una polemica. Alcuni osservatori, sorpresi dai risultati, hanno addirittura messo in discussione i criteri di valutazione utilizzati. Detto che la libertà di opinione non solo è correlata a quella di stampa ma, ovviamente, è altrettanto importante, come redazione crediamo che “prendersela con l’arbitro” sia l’atteggiamento sbagliato. Al di là di queste polemiche, infatti, siamo convinti che la forza e il significato di questo genere di report stia nella visione d’insieme che ci offrono. Giusti o sbagliati che siano, i parametri utilizzati sono stati applicati in egual misura a tutti i Paesi presi in esame e ciò permette comunque di farsi un’idea piuttosto precisa almeno in termini relativi. A nostro avviso non è importante se a vincere sia questa o quella nazione ma piuttosto che Paesi come l’Italia si attestino su posizioni tutt’altro che lusinghiere e in ogni caso piuttosto lontane da quelle occupate per esempio dalla Germania che pure a sua volta non ottiene i risultati che ci si aspetterebbe dalla nazione che è spesso un esempio di democrazia. Nell’anno della tragedia di Charlie Hebdo il giornalismo si conferma drammaticamente sotto assedio non solo fisicamente (minacce, intimidazioni e arresti sono cresciuti un po’ ovunque) ma anche strutturalmente. In Europa la libertà di stampa è messa all’angolo da fattori non violenti come la crisi del settore editoriale che è causa della diminuzione del pluralismo e generatore di vere e proprie distorsioni, come quella che stanno vivendo i giornalisti dell’Unità costretti a dover rispondere in prima persona delle cause e querele intentate alla loro ex testata, in conseguenza del fallimento dell’editore. Questo paradosso ci permette di mettere a fuoco un altro elemento penalizzante la libertà di stampa italiana, ossia la pressione “legale” esercitata sui giornalisti da molti, privati o aziende, utilizzando una tecnica che potremmo chiamare di querela preventiva. È giusto che il sistema preveda la possibilità di difendersi da eventuali diffamazioni a mezzo stampa con un’azione giudiziaria, tuttavia l’attuale legislazione consente ai più furbi di utilizzare questo strumento non per proteggersi ma per intimidire i giornalisti con la prospettiva di una lunga causa civile. Per questo e altre ragioni sarebbe opportuno prendere quanto prima in considerazione l’esempio anglosassone che per porre un freno a questa situazione ha introdotto meccanismi cautelativi, rivelatisi efficaci. Nel Regno Unito infatti, se si intende citare in giudizio un giornale o un suo giornalista, il querelante è tenuto a depositare una somma che può arrivare anche alla metà dei danni richiesti e, se il procedimento termina con l’assoluzione del querelato, a pagare a sua volta i danni. Un modo semplice per riequilibrare la bilancia. Per quanto riguarda il nostro belpaese, infine, a pesare sul giudizio negativo ottenuto concorrono sicuramente sia l’annoso problema del conflitto d’interesse che continua a restare pericolosamente irrisolto, sia le questioni connesse al controllo della RAI, tema su cui da anni si attendono riforme vere, capaci di tutelare il cittadino e rilanciare informazione e libertà di stampa.

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