Gli invisibili #9

Storie, interviste e contributi di fotoreporter tenaci

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Riprendiamo la nostra rubrica con l’intervista a Valentina Camu, fotoreporter italiana che vive a Parigi.

Valentina ci racconterà il suo percorso professionale fino ad arrivare alla scelta professionale di iniziare a trattare l’attualità quotidiana in un altro modo, prendendosi più tempo e privilegiando l’approfondimento.

Quando hai scoperto la tua passione per la fotografia?

Penso di aver amato la fotografia quando a 8 anni mi é stata regalata una Polaroid. Mio padre faceva fotografia a livello amatoriale ma a casa abbiamo sempre avuto delle macchine fotografiche in giro. Mi é sempre piaciuto molto disegnare e arrivata alle belle arti ho iniziato un corso di fotografia, ho scoperto la camera oscura e la magia della fotografia e in quel momento é nata davvero la passione. Durante gli studi ho ottenuto una borsa di studio e sono partita per la Spagna. Da quel momento ho iniziato a viaggiare e ho capito che il reportage e la foto documentaria era quello che mi interessava davvero. Ho iniziato quindi un progetto fotografico sul mondo del viaggio, dei traveller’s e della musica tecno. È stato il mio primo lavoro e mi sembrava un sogno pensare che un giorno avrei potuto lavorare nel campo fotografico.

Quando è diventata un lavoro?

Ho iniziato a lavorare subito dopo la fine degli studi nel 2006, prima come assistente fotografa poi in Francia come fotografa di eventi ma ho sempre avuto il desiderio di lavorare come fotoreporter. Ho quindi iniziato come freelance nel 2010.

Lavori per qualche agenzia o sei un freelance?

Faccio parte dello Studio Hans Lucas à Parigi una piattaforma di diffusione per fotografi freelance.

Di cosa ti occupi nello specifico?

Mi occupo principalmente di fotografia sociale-documentaria e fotogiornalismo.

In cosa consiste il tuo lavoro quotidiano ?

È molto variabile, in questo momento sto lavorando su un progetto di fotografia sociale per una no profit. In generale organizzo il tempo di lavoro tra i vari progetti, commissionati e personali, e seguo regolarmente i fatti di cronaca e attualità.

Per quale motivo ritieni, e se lo ritieni, che il mercato dell’editoria fotografica sia in crisi?

C’è une grande crisi editoriale e penso che siano varie le ragioni di questa situazione. L’arrivo del digitale che ha cambiato il mestiere e lo ha reso più accessibile ma anche la mancata coesione tra i colleghi per difendere il mestiere.

Vivo e lavoro a Parigi dove la realtà é piuttosto diversa da quella italiana. Il mondo della fotografia in Francia è considerato molto più seriamente che in Italia. Ci sono più possibilità di trovare dei lavori commissionati da magazine o giornali, ma anche qui la realtà cambia e diventa sempre più complicato poter vivere esclusivamente di foto-giornalismo. Ci sono altri modi per pubblicare le storie che non sono scelte dai magazine, delle soluzioni alternative per continuare a testimoniare. Dopo le manifestazioni contro il job act in Francia, parlando con altri colleghi, ci siamo resi conto di avere tantissime immagini degli eventi che non erano mai state pubblicate. Dopo esserci riuniti abbiamo deciso di creare una pubblicazione per raccogliere la nostra esperienza e le nostre testimonianze attraverso le immagini di quel periodo.

Con Yann Levy, Valérie Dubois, Nnoman, Julien Pitinome, Rose Lecat e Vincent Palmier abbiamo creato un pubblicazione annuale, “Etats d’urgence” pubblicato dalla casa editrice Libertalia. Abbiamo ritenuto importante dare vita ad un progetto che raccontasse la crisi sociale presente in Francia, restando liberi di costruire le nostre storie.

Col tempo ho capito che era necessario trovare delle attività parallele da affiancare al lavoro fotogiornalistico. Ho iniziato dunque a realizzare dei reportages documentari commissionati direttamente dalle associazioni no profit e dei servizi fotografici maggiormente istituzionali.

Come vedi il ruolo del fotogiornalismo oggi alla luce della crisi del sistema editoriale?

Nonostante la crisi editoriale è importante continuare a testimoniare. Il ruolo del fotogiornalismo non cambia e oggi ancora di più è necessario assumere un rigore etico e professionale.

Secondo te è corretto dire che il foto giornalismo è morto, questa affermazione ha secondo te un fondamento di verità?

Non penso assolutamente che il foto-giornalismo sia morto. Penso che questa sia un’affermazione impiegata dai fotografi che hanno vissuto l’epoca d’oro di questo mestiere. È molto difficile mantenersi ma é possibile. Penso che si debba ripensare il modo di trattare l’attualità e raccontare una storia, avendo un approccio diverso da quello delle breaking news delle agenzie internazionali.

Ammesso che esista, quale è per te l’etica del foto giornalismo?

Sì, c’è un’etica nel foto giornalismo, il dovere che abbiamo quando scattiamo delle immagini è quello di raccontare quello che vediamo nel modo più onesto possibile, rispettando sempre le persone che fotografiamo. I soggetti dei nostri servizi, sono persone che decidono di raccontarci la loro storia e questo da un lato merita rispetto, dall’altro ci impone di provare a raccontare la loro storia nel modo più trasparente e oggettivo.

Ogni volta che raccontiamo storie attraverso le immagini non ci limitiamo a compiere un gesto meccanico ma cerchiamo di portare parte della nostra sensibilità nel lavoro.

Quale è il significato oggi di “fare informazione”? Il fenomeno del citizen journalist non è arrestabile e ha ridefinito nuove modalità del mestiere del giornalista e del foto giornalista. Quali saranno a tuo avviso le prossime evoluzioni? In che direzione andrà questo mestiere?

Non sono contraria al fenomeno di citizen journalism. Può servire per cominciare ad avvicinarsi a questa professione ma non può diventare un surrogato della vera informazione.

Quando vedi gallery sui quotidiani online di 170 foto cosa pensi?

Mi annoia, troppe immagini senza una coerenza logica e senza una trama.


Quando ad un evento o su un fenomeno drammatico come le rotte migratorie attraverso i Balcani o ancora ai festival del cinema ti trovi con un numero di colleghi spropositato, cosa pensi?

Mi é capitato di scattare durante una fashion week, un settore completamente diverso rispetto a quello a cui sono abituata, e ti confesso che ho riso davvero tanto, perché spesso mi sembrava di trovarmi in situazioni situazioni surreali.

Ho provato una sensazione simile durante le manifestazioni, quando ci si trova a essere molti fotografi che scattano la stessa fotografia nello stesso luogo. Per me stava diventando impossibile lavorare, non trovavo più il senso del mio lavoro. Ho deciso per questo di trattare in un altro modo l’attualità concentrandomi su progetti a lungo termine. 

Tutte le foto pubblicate nella gallery sono di © Valentina Camozza

 

 

Nata nel 1982 à Genova, Valentina vive e lavora a Parigi.  Durante gli studi presso l’ Accademia Ligustica di Belle Arti scopre la passione per la fotografia.  Grazie a una borsa di studio parte per la Spagna e viaggia con un gruppo di traveller’s.  Comincia a fotografare il loro quotidiano e inizia cosi il suo primo progetto sulla vita nomade e il mondo della musica techno.  Nel 2007 dopo una breve permanenza nel sud della Francia si trasferisce a Parigi per seguire una formazione nel centro AFOMAV. Qualche anno più tardi diventa fotografa freelance, e lavora principalmente a progetti di fotografia sociale e come foto giornalista.  Valentina fa parte dello Studio Hans Lucas dal 2015.