Gli invisibili tornano dopo due settimane di pausa. Torniamo online con un nuova intervista ad un nuovo fotogiornalista: Marco Alpozzi. Il 2017 si è chiuso e noi ci auguriamo un 2018 in cui sapremo essere ancora coerenti con il nostro impegno e costanti nella pubblicazione di articoli, interviste e contenuti capaci di smuovere il vostro interesse. Ci tengo a ribadire che Gli invisibili è una rubrica che cerca di tenere sopra la corrente del turbinio quotidiano le storie e le vite di quei fotogiornalisti che ogni giorno lavorano per dare valore e senso all’informazione. Gli invisibili è per noi di Witness Journal un punto di partenza e non di arrivo, anzi come redazione stiamo cercando di capire come avviare nuovi progetti e come dare a questi sostenibilità e qualità. Allora colgo l’occasione per dire a tutti i lettori della rubrica e di WJ in generale che è aperta la campagna tesseramento 2018 per sostenere le attività del giornale. La tessera alla nostra Associazione Witness Journal, che è editrice del sito web e del magazine mensile, è un modo per dare concretezza e continuità ad un progetto di informazione indipendente e soprattutto è uno strumento per consentire ad un pubblico sempre più vasto di partecipare alle attività e al progetto di Witness Journal. Uno dei nostri obiettivi fondamentali, oltre a cercare di diffondere progetti interessanti di fotogiornalismo, è quello di contribuire a costruire e rafforzare sempre più una cultura fotografica estesa e critica.
Anche oggi lo facciamo proponendovi l’intervista a Marco Alpozzi.
Sul nostro sito trovate tutte le informazioni per poter procedere alla sottoscrizione.
Quando hai scoperto la tua passione per la fotografia?
Da sempre, fin da quando ero piccolo. È sempre stata una passione presente in famiglia: diapositive delle vacanze, foto stampate. All’età di 14 anni ho deciso di iniziare a frequentare l’Istituto Tecnico Fellini di Torino, prevalentemente orientato sull’audiovisivo. Quindi come percorso didattico mi sono avvicinato maggiormente al video ma ho sempre coltivato la passione per la fotografia.
Quando è diventata un lavoro?
Diventa un lavoro con il quale riesco a mantenermi nel 2011. Terminata la scuola però avevo iniziato a collaborare con l’ufficio stampa della Croce Rossa Italiana e dopo decisi di cercare nuove opportunità iniziando a collaborare con alcune agenzie fotografiche di Torino e Milano. Poi nel 2012 sono approdato a LaPresse come collaboratore occasionale, nel 2013 ne sono diventato un collaboratore fisso.
Lavori come freelance?
Sono un libero professionista ma collaboro in esclusiva con LaPresse.
Di cosa ti occupi nello specifico?
In realtà non seguo un settore in particolare ma mi occupo di molte cose: calcio, economia, cronaca, esteri e sport in generale. È questa una caratteristica del fotografo di agenzia.
In cosa consiste il tuo lavoro quotidiano?
Negli ultimi mesi oltre alla realizzazione di servizi fotogiornalistici mi occupo anche di coordinare altri fotografi gestendone i servizi e monitorando costantemente le altre agenzie e le notizie. Oltre a questo sono spesso reperibile per coprire i servizi che escono e che rischiano di restare scoperti. Sono anche impegnato nella gestione dei servizi commerciali per alcuni clienti e quindi oltre a realizzare concretamente il servizio gestisco il rapporto con il cliente.
Per quali motivi ritieni, se lo ritieni, che il mercato dell’editoria sia in crisi? E come vedi il futuro del fotogiornalismo alla luce della crisi del sistema editoriale?
Credo che la principale causa della crisi dell’intero sistema editoriale sia dovuta alla scarsa lungimiranza che hanno avuto alcuni editori con l’arrivo del sistema digitale, sia in relazione alle possibilità importanti offerte dalla digitalizzazione dell’informazione sia rispetto ai limiti che questo ha generato. Si è pensato che la smaterializzazione del prodotto informativo digitale avesse un valore minore e questo poi ha avuto come ulteriore effetto una scarsa richiesta di qualità del prodotto digitale. Diciamo che tutti possono accedere alla tecnologia che sta dietro la fotografia digitale ma non tutti possono e sanno trasformare questa facilità di accesso in qualità del prodotto in uscita.
Inoltre un altro passaggio che mancato è stato l’assenza di un ricambio generazionale tra i colleghi e sopratutto in realtà più provinciali l’avvicendamento dei nuovi e più giovani colleghi è sempre stato visto non di buon occhio. In questo quadro diventa veramente difficile introdurre elementi di novità.
Le generazioni più anziane continuano ad avere un ruolo di condizionamento forte nel nostro mestiere e quindi il fotogiornalismo fa fatica a cambiare e a trovare nuovi elementi di freschezza.
Secondo te è corretto dire che il fotogiornalismo è morto? Questa affermazione ha per te un fondamento di verità?
Il fotogiornalismo non è morto ma è stato di fatto coinvolto nell’insieme dei cambiamenti, non ancora terminati, del sistema mediatico generale.
Arriviamo da un periodo di forte cambiamento anche sulla scena internazionale, come ad esempio le primavere arabe e i flussi migratori nel Mediterraneo. In quelle regioni si sono formati nuovi fotogiornalisti locali capaci e in grado di comprendere le priorità molto prima di un qualsiasi fotogiornalista occidentale recatosi in quelle zone per raccontare un contesto di crisi.
Inoltre il grosso cambiamento è anche in relazione al sistema editoriale e dunque in funzione della committenza: credo che sia un periodo di transizione e noi ci siamo nel mezzo.
Ammesso che esita, quale è per te l’etica del fotogiornalismo?
Esiste un’etica della professione ed è fondamentale nella misura in cui ognuno segue il proprio codice etico, frutto della propria cultura di provenienza e del contesto nel quale di è formato.
Un fotografo africano ha un’etica diversa da quello Europeo.
A volte mi chiedo se la scelta di far vedere il corpo di un morto sia corretto o meno e sopratutto quando è corretto e quando è solo ricerca di sensazionalismo?
Per me l’etica è prima di tutto rispettare le persone che sto fotografando: a volte è necessario evitare di fare alcuni scatti, altre volte è giusto non fotografare qualcuno che non vuole essere fotografato, altre volte è giusto raccontare di un morto perché questo può aiutare a smuovere coscienze e sensibilità. Il rischio talvolta è quello di autocensurarsi difronte alle tragedie ma così viene meno il nostro ruolo professionale.
Quale è il significato oggi di “fare informazione”? Il fenomeno del citizen journalist non è arrestabile e ha ridefinito nuove modalità del mestiere del giornalista e del foto giornalista. Quali saranno a tuo avviso le prossime evoluzioni? In che direzione andrà questo mestiere?
Il fenomeno del citizen Journalist è impossibile da fermare, oggi in molti dispongono di sistemi di ripresa e di condivisione digitale e questo rende il fenomeno inarrestabile.
Il vero problema è la mancanza di etica e di verifica delle fonti a cui il citizen journalist può andare incontro. Affidando l’informazione al citizen journalist si rischia di avere una lettura parziale della notizia, il ruolo del giornalista è invece quello di garantire l’autenticità della notizia e quindi ha l’obbligo di verificare la coerenza e l’autenticità del fatto. Come fotogiornalisti abbiamo il dovere di approfondire il fatti, ognuno in relazione alla specificità del proprio ruolo se si è fotografi di agenzia, fotografi di un giornale o di un periodico. Esistono diversi livelli di approfondimento ognuno collegato alla propria specificità professionale ma i criteri deontologici di verità, coerenza e pertinenza del fatto non devono mai venire meno.
Quando vedi gallery sui quotidiani online di 170 foto cosa pensi?
Troppo spesso manca nelle redazioni dei giornali la volontà e la capacità di leggere e scegliere le foto, dando valore agli scatti in relazione alla loro specificità contestuale e stilistica. Il problema sono i click: più foto più click.
Credo che sia anche una mancanza di rispetto nei confronti del lettore che viene sfruttato come fabbricatore di click a cui vengono date in pasto decine e decine di foto per gallery.
Quando ad un evento o su un fenomeno drammatico come le rotte migratorie attraverso i Balcani o ancora ai festival del cinema ti trovi con un numero di colleghi spropositato, cosa pensi?
Ogni situazione è diversa dalle altre. Sulla questione migranti si crea quello che è definito il circo mediatico ma almeno si riesce a lavorare, ognuno riesce a ritagliarsi un punto di vista, una storia, una modalità di narrazione. È una situazione incontrollabile perché tutti possono partire e andare a Belgrado per raccontare quella che in un determinato periodo è la notizia. Ma questa possibilità è giusto che non sia negata a nessuno.
In altre circostanze invece la responsabilità è di chi organizza l’evento che non vuole porre un filtro agli accrediti e agli accessi, generando di fatto una “bolgia di fotografi” dove lavorare bene diventa molto complicato. In questi casi si squalifica la professione del fotogiornalista e passa il messaggio che chiunque abbia una macchina fotografica al collo può richiedere un accredito per un determinato evento.
Marco Alpozzi nasce a Torino nel 1987, fin da piccolo tiene in mano macchine foto, pellicole e diapositive. Dopo il diploma in tecnico dell’industria audiovisiva, entra nel mondo della fotografia collaborando con l’ufficio stampa della Croce Rossa Italiana. Nel 2009 all’Aquila documenta i soccorsi alla popolazione colpita dal terremoto. Due anni dopo vola in Tunisia, tra i profughi che cercano scampo in Europa. Poi è a Lampedusa, tra le migliaia di persone sbarcate in fuga da guerre, carestie, persecuzioni. Embedded in Afghanistan con l’Esercito italiano, nel 2012 segue la missione Isaf negli avamposti Bala Baluk e Shindand. Nel 2015 realizza in Ucraina un reportage sul conflitto nel Donbass, a un anno dalla rivoluzione di Maidan, a Kiev. Attualmente sta seguendo l’emergenza profughi ai confini della «fortezza Europa», la crisi umanitaria più grave degli ultimi decenni.