Gli invisibili #5

Storie, interviste e contributi di fotoreporter tenaci

© Luca Matarazzo

Torniamo anche questa settimana con Gli invisibili e con un altro fotoreporter, Luca Matarazzo, fotografo e fotogiornalista milanese. Luca è meticoloso e scrupoloso, sempre attento alla notizia. Uno di quelli che approfondisce e cerca di capirci fino in fondo. Oltre a collaborare con diverse agenzie fotogiornalistiche e diversi quotidiani nazionali, persegue progetti personali ed è un amante delle istantanee. Proprio in questi giorni è in corso a Napoli la mostra di uno dei suoi progetti.

Quando hai scoperto la tua passione per la fotografia?

Le macchine fotografiche sono sempre state in casa mia. Fin da piccolo ho avuto accesso a questo mezzo e con gli anni ho sviluppato una crescita costante di interesse per il suo linguaggio. 

Quando è diventata un lavoro?

Circa 8 anni fa.

Lavori per qualche agenzia o sei un freelance?

Sono un freelance, ho lavorato per Tam Tam, Milestone e Fotogramma.

Di cosa ti occupi nello specifico?

Cronaca politica, cronaca nera, eventi, manifestazioni e reportage

In cosa consiste il tuo lavoro quotidiano ?

Fino a qualche tempo fa lavorando esclusivamente con l’agenzia Fotogramma il mio lavoro consisteva nel seguire le principali notizie della giornata, più le richieste dei giornalisti di Corriere della Sera e La Repubblica. Ora che sono più libero, oltre ai commerciali, cerco di sviluppare progetti personali e sto sperimentando nuove storie con diversi linguaggi fotografici.

Per quale motivo ritieni, e se lo ritieni, che il mercato dell’editoria fotografica sia in crisi?

L’evoluzione tecnologica e dell’informazione, la scarsa cultura imprenditoriale, la scarsa cultura dell’utente medio, la scarsa attitudine alla qualità a cui ci siamo abituati e la crisi economica sono tutti fattori che hanno inciso sulla situazione attuale, ma non saprei dire quale di questi elementi sia il più grave.

Come vedi il ruolo del foto giornalismo oggi alla luce della crisi del sistema editoriale?

Lo vedo un po’ troppo in secondo piano, ma bisogna guardare anche al passato. In tempi migliori il fotografo e il foto giornalismo non si sono mai ritagliati lo spazio e l’autorevolezza che meritavano e non si è mai creato un sistema coeso tra colleghi, lasciando spazio di manovra agli editori che hanno guardato soltanto al risparmio e tagliato sulla qualità del prodotto. Tutto questo a discapito delle condizioni lavorative. Ma in un’ epoca dove giravano tanti, forse troppi soldi, nessuno ha guardato al futuro, così adesso paghiamo le conseguenze di tutto questo.

Secondo te è corretto dire che il foto giornalismo è morto, questa affermazione ha secondo te un fondamento di verità?

No, non è assolutamente morto, nonostante la crisi, nonostante la poca considerazione, nonostante tutte le difficoltà ci sono tantissimi fotografi che fanno lavori eccezionali. Il loro lavoro merita visibilità e rispetto, soprattutto economico. C’è bisogno di formazione per chi vuole intraprendere questo mestiere, ma anche di educare i lettori alla qualità e ricordare che la qualità ha un costo professionale e produttivo. I prezzi che vengono applicati oggi dai giornali non soltanto non coprono questo costo ma sviliscono anche la dimensione umana.

Ammesso che esista, quale è per te l’etica del foto giornalismo?

Ecco, anche qui bisognerebbe fare cultura e formazione. Il foto giornalismo, come il giornalismo, è un argomento molto delicato. Si rischia una denuncia per aver fotografato una persona che passeggia per strada o un gruppo di bimbi che esce da scuola, ma spesso si mettono in pagina foto dove la didascalia del fotografo non corrisponde all’articolo. A me è capitato spesso che lo spirito con cui avevo fotografato una situazione venisse completamente stravolto. Spesso capita che si usino foto d’archivio per raccontare fatti nuovi: mi ricordo un articolo uscito non molto tempo fa che parlava della situazione migranti in Stazione Centrale a Milano; la foto usata per l’articolo, critico sulle modalità di gestione del fenomeno, era di due anni prima e mostrava migranti e richiedenti asilo che dormivano sul mezzanino della stazione. Le immagini lasciavano passare una sensazione di disagio ma l’informazione data non era del tutto corretta perché il luogo descritto, il mezzanino, da almeno due anni è occupato da ristoranti.

Io cerco di essere il più onesto possibile con le foto che scatto, cerco di evitare di mettere nei guai persone inconsapevoli, cerco sempre un approccio con i soggetti che ritraggo, cerco di non stravolgere mai la realtà dei fatti, anche se spesso questo non sempre è possibile. L’esempio più comune riguarda i luoghi sporchi: spesso dalla redazione di un giornale viene chiesto di fotografare la sporcizia in strada o di un luogo anche se questo non corrisponde alla realtà e tu sei quindi costretto a fotografare l’unico pezzo di carta a terra. Anche se cerco di oppormi a queste storture mi rendo conto che ormai è una macchina molto più grande che è già in moto e che è difficile fermare.

Quale è il significato oggi di “fare informazione”? Il fenomeno del citizen journalist non è arrestabile e ha ridefinito nuove modalità del mestiere del giornalista e del foto giornalista. Quali saranno a tuo avviso le prossime evoluzioni? In che direzione andrà questo mestiere?

Il fenomeno dei citizen journalism è ovviamente e giustamente una modalità nuova del fare informazione, un’evoluzione che non reputo negativa, ma che ha un limite: l’attendibilità. Qui inizia il lavoro dei professionisti, giornalisti e fotografi, che con esperienza, etica e professionalità sanno muoversi nelle diverse situazioni, cercando di essere imparziali, indipendenti, attenti a verificare le fonti, portando a casa il prodotto migliore possibile.

Il futuro di questo mestiere sta nella qualità e nell’approfondimento. Va bene il “tutto e subito”, ma questo non deve sostituirsi alla qualità e all’approfondimento, è vero che i tempi delle notizie sono ormai brevissimi, ma chi decide la velocità? Il mercato? Certamente è così, ma questo non esime le redazioni dall’intraprendere un processo di educazione all’approfondimento e alla critica dei propri lettori. Per fare un esempio, una manifestazione allegra e colorata come un pride ha realmente bisogno di avere una gallery online a cinque minuti dal suo inizio? Non sarebbe forse più interessante vedere una selezione di dieci foto significative al termine della manifestazione?

Quando vedi gallery sui quotidiani online di 170 foto cosa pensi?

Penso che noia, tu non ti romperesti le palle a guardare 170 foto che non hanno un legame stilistico tra loro, dove non c’è una narrazione coerente, nessun filo logico e spesso scattate da fotografi diversi, con mezzi diversi, e talvolta scaricate dai social?

Quando ad un evento o su un fenomeno drammatico come le rotte migratorie attraverso i Balcani o ancora ai festival del cinema ti trovi con un numero di colleghi spropositato, cosa pensi?

Penso che va bene il tema migranti, che è sicuramente un argomento interessante e che va approfondito, ma pare quasi che sia l’unico tema fotografico che bisogna trattare, o comunque l’unico tema che ti porta a poter essere notato nei concorsi fotografici. Sembra quasi che se non ti dimostri solidale e attento a questo tema, il tuo lavoro sia meno nobile. Forse è il caso di iniziare una riflessione per cercare di trattare con la stessa attenzione anche altri argomenti. 

 

Tutte le immagini della gallery sono di ©Luca Matarazzo

 

 

Nato a Milano nel 1982, Luca Matarazzo è un fotoreporter italiano. Da anni collabora con i principali quotidiani e settimanali nazionali, prima per l’agenzia Tam Tam, Milestone, dal 2013 collabora con l’agenzia Fotogramma. Ha seguito alcuni tra i maggiori avvenimenti italiani e internazionali, dagli attentati terroristici di Parigi al Bataclan e allo Stade de France del novembre 2015, agli sgomberi della Jungle di Calais, nel febbraio scorso. Ha vinto il “PremioGuido Vergani – Cronista dell’anno 2016″