Gli invisibili continua con una intervista a Guglielmo Mangiapane, palermitano doc inizia molto giovane la professione di fotoreporter collaborando con agenzie come Reuters e LaPresse. Impara il mestiere sul campo dopo avere frequentato gli studi di giornalismo all’Università e, come molti colleghi, trovando una macchina fotografica inutilizzata in un armadio, inizia l’apprendistato della passione e del sogno per il fotogiornalismo.
Prima di passare all’intervista una breve, ma spero utile, riflessione sulle fake news. La settimana passata dal New York Times alla Leopolda di Renzi passando per molti quotidiani italiani il tema delle notizie false e tendenziose è stato argomento di discussione e di confronto. Anche Witness Journal vuole dare un contributo alla discussione ma affrontandola da un punto di vista che ci è proprio: quello del linguaggio fotogiornalistico.
Chiunque abbia partecipato ad un corso o letto un testo di deontologia professionale avrà sicuramente sentito parlare, oltre al diritto di cronaca, della “santa triplice alleanza” data dalle regole fondamentali del giornalismo: verità, continenza e pertinenza. Queste tre parole stanno ad indicare tre concetti e tre modi di procedere nel proprio lavoro che fanno la differenza tra chi fa il giornalista e il fotogiornalista e chi invece fa letteratura, scrive di fantasia o gestisce qualche blog. Tutte queste declinazioni di racconto meritano rispetto e sono importanti e tutte possono esprimersi producendo lavori e pensieri di qualità oppure delle grandi stupidaggini. Ma quando fai il giornalista, scrivente o fotografante, devi attenerti ad una informazioni vera, realmente accaduta e coerente rispetto al luogo, alle persone e ai fatti, contenuta nei modi, nelle parole e nelle immagini che proponi, cioè non devi usare un linguaggio offensivo, non serve usare un’immagine cruenta, se non è necessario, che possa attaccare ingiustamente la dignità del soggetto di cui parli, e pertinente, devi quindi parlare di quello che è accaduto e non inventarti strani e assurdi collegamenti con altre circostanze oppure parlare di una cosa per intenderne altre in modo strumentale.
In Italia, purtroppo, troppo spesso questa magnifica alleanza di principi etici, deontologici e metodologici viene aggirata e quindi assistiamo a titoli di giornali infamanti, articoli che generalizzano sui fenomeni come l’islamismo, l’immigrazione, la corruzione e molto altro. Le immagini in questo meccanismo distorto giocano un ruolo ancora più profondo e lacerante, non solo nelle bufale ricostruite con qualche programma di foto ritocco, come ad esempio l’ultima trovata di pubblicare una foto dove di vede la Sottosegretaria di Stato Maria Elena Boschi e la presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini partecipare ai funerali del boss mafioso Salvatore Riina. Questa immagine, offensiva verso alte cariche dello Stato e verso la loro dignità di donne, era palesemente un falso, solo qualche ignorante o qualche professionista dell’insulto poteva credere che fosse vera, anche perché i funerali di Riina sono stati celebrati in forma privata.
Ma l’utilizzo scorretto delle immagini per raccontare altro è ancora più grave nella dimensione quotidiana e non, seppure grave, in quella eccezionale come quella di sopra. Mi riferisco ad esempio all’affiancamento di immagini fotografiche ad articoli che parlano di altro: l’immagine dei migranti in fuga per parlare di invasione, la faccia di un politico per parlare della corruzione, la smorfia di un personaggio per descrivere un aspetto caratteriale o peggio ancora un difetto estetico e così avanti.
Il fotogiornalista ogni volta che invia un servizio alla redazione o all’agenzia fotografica per la quale lavora, ha generalmente l’abitudine di corredare l’immagine con delle didascalie che hanno un taglio giornalistico: chi, dove, quando, cosa, perché. Sarebbe corretto che sulla base di queste informazioni, e solo di queste, la foto fosse abbinata ad un articolo scritto, arricchendone il punto di vista e la complessità e non altre strane modalità di abbinamento.
Se anche la fotografia è una notizia, che si racconta per immagini, allora l’abbinamento non corretto produce una falsa foto notizia.
Questo, a differenza dei casi eclatanti ed eccezionali che generano una reazione di fastidio e rabbia, produce qualcosa di peggiore poiché agisce sull’abitudine quotidiana a vedere e decodificare le immagini: crea di fatto una cultura fotografica distorta e distopica.
Con questa breve riflessione, vi invito a partecipare commentando o inviando vostre riflessioni e vi lascio alla lettura e alla conoscenza del fotogiornalista che questa settimana è ospite de Gli invisibili: Guglielmo Mangiapane.
Quando hai scoperto la tua passione per la fotografia?
Ho scoperto la passione per la fotografia intorno ai 20 anni. Mia madre regalò a mio padre una reflex digitale per i suoi 40 anni. Reflex che rimase chiusa nell’armadio e inutilizzata per molti anni fino a quando, in una giornata di rara noia, mi misi a curiosare nell’armadio di mio padre e trovai la macchina fotografica che gli era stata regalata da mia madre. Una canon 400D. Da lì è partito tutto.
Quando è diventata un lavoro?
Inizialmente il mio sogno era quello di diventare giornalista sportivo e mi iscrissi alla facoltà di giornalismo all’università di Palermo. Dopo il primo anno capii che la passione per il giornalismo era tanta e non volevo limitarla allo sport. Pensando e ripensando alla mia passione per la fotografia decisi allora di combinare le due cose: giornalismo e fotografia. Mi misi subito alla prova, andando a fotografare le notizie che accadevano in città. Il primo anno fu un disastro dal punto di vista economico, ricordo che guadagnai circa 130 euro. Quel primo anno però è stato fondamentale. Riuscii a mettermi in gioco e confrontarmi con i fotografi più esperti, cominciai a capire come svolgere il mio lavoro e mi diede la certezza che il fotogiornalismo era la strada che volevo percorrere. Dopo questo primo anno, cominciai a mandare le mie foto alle agenzie e così cominciarono le prime collaborazioni.
Lavori per qualche agenzia o sei un freelance?
Sono un freelance e collaboro in maniera continuativa con le agenzia di stampa Reuters e LaPresse per le quali seguo le notizie dalla Sicilia.
Di cosa ti occupi nello specifico?
Il mio lavoro si concentra sulla cronaca e sulla politica ma in generale copro tutte le storie che accadono per lo più in Sicilia. Negli ultimi anni il mio lavoro si è concentrato sull’emergenza migranti nel Mediterraneo e di recente ho seguito il G7 a Taormina per l’agenzia Reuters. Il mestiere del fotogiornalista però è così vario e imprevedibile che ridurre il nostro lavoro a qualcosa di specifico è veramente difficile. Un giorno corri in questura per fotografare un arresto di un boss di mafia, il giorno dopo sei in giacca e cravatta per seguire la sfilata di moda di Dolce&Gabbana e qualche ora dopo sei tra i boschi per documentare l’emergenza incendi. È un lavoro imprevedibile. Ma è bello così com’è.
In cosa consiste il tuo lavoro quotidiano ?
Sveglia presto. Un veloce controllo alle notizie, una rapida chiamata in redazione per verificare che la storia interessi all’agenzia e di corsa in macchina per raggiungere il luogo della notizia. Non tutti i giorno sono uguali però. A volte devi seguire una storia che è programmata, parlo di manifestazioni, partite di calcio, convention politiche. Per queste storie puoi permetterti di programmarti la giornata in anticipo e non fare tutto di corsa. Il denominatore comune a tutte le storie è comunque sempre la velocità combinata con la qualità. Devi riuscire a produrre un contenuto di qualità, verificarlo e inviarlo nel minor tempo possibile. Ci sono anche giornate vuote nelle quali non succede nulla e allora ti godi la vita, gli amici, ma sempre con un occhio al telefonino che non riposa mai.
Per quale motivo ritieni, e se lo ritieni, che il mercato dell’editoria fotografica sia in crisi?
Premesso che si potrebbero scrivere trattati su questo argomento e che probabilmente la risposta definitiva non esiste, a mio avviso, il mercato dell’editoria fotografica è in crisi perché si predilige la quantità alla qualità e chiunque è in grado di fornire quantità anche a basso prezzo. La qualità invece bisogna ricercarla, costa tempo e denaro e non tutti i giornali lo capiscono o meglio, lo capiscono ma non credono sia così importante. Aggiungo anche che i fotografi hanno perso il “potere di contrattare”. Un tempo, prima che il mezzo fotografico diventasse così accessibile, i fotografi professionisti erano, molto spesso, gli unici ad avere le immagini. Nessuno si sognava, giornalisti, passanti, curiosi, di scattare una foto, correre in camera oscura, sviluppare, correre al giornale e dare la foto gratis. Oggi, purtroppo, i fotografi devono lottare contro una concorrenza sleale che è quella di chi non fa questo mestiere ma si trova sul luogo della notizia, scatta una foto e la regala ai giornali. La mia non è una critica alle persone, sarebbe utopico pretendere una riflessione sulla conseguenza di cedere gratuitamente le foto alle redazioni; la mia è una critica ai giornali, che dovrebbero essere il luogo dove si garantisce la tutela dei fotogiornalisti e della loro professionalità. Ma come dicevo prima la qualità va ricercata e pagata mentre la quantità fa gola e la parola gratis ancora di più.
Come vedi il ruolo del foto giornalismo oggi alla luce della crisi del sistema editoriale?
Il ruolo del fotogiornalismo è rimasto immutato e a mio avviso prescinde dalla crisi del sistema editoriale. Il fotogiornalista ha il compito di essere sul luogo della storia, essere gli occhi di chi non è presente e riportare in maniera quanto più oggettiva possibile ciò che vede. Il fotografo è un testimone a tutti gli effetti e la fotografia è un documento di verità, una testimonianza di ciò che è accaduto. Questa sua caratteristica rimane immutata ed è slegata dalla crisi innegabile che sta attraversando il sistema editoriale.
Secondo te è corretto dire che il foto giornalismo è morto, questa affermazione ha secondo te un fondamento di verità?
No, non è morto e non lo sarà mai almeno fino a quando ci sarà anche solo un fotogiornalista che continua a fare il proprio mestiere con passione, etica e intelligenza. Poter fare questo mestiere è un privilegio, perché si raccontano storie capaci di condizionare l’opinione e la visione presente e futura della relatà.
Oggi ci sono molti esempi di fotografi che svolgono il loro lavoro con grande professionalità, a questi dobbiamo essere grati perché grazie al loro lavoro le generazioni future potranno sapere e vedere la storia passata.
Ammesso che esista, quale è per te l’etica del foto giornalismo?
Credo che salvo rare eccezioni, quasi tutto sia permesso al fotogiornalista ma solo se mettiamo al primo posto lo scopo principale del nostro mestiere: raccontare i fatti con onestà, senza secondi fini e in maniera trasparente e inequivocabile.
Quale è il significato oggi di “fare informazione”? Il fenomeno del citizen journalist non è arrestabile e ha ridefinito nuove modalità del mestiere del giornalista e del foto giornalista. Quali saranno a tuo avviso le prossime evoluzioni? In che direzione andrà questo mestiere?
C’è una notizia buona e una cattiva. Quella cattiva è che oggi l’informazioni è un business. Forse lo è sempre stata però oggi è accentuata e portata alle estreme conseguenze. Il giornale è prima un’azienda che deve produrre utili e poi un organo di informazione che svolge un servizio fondamentale per la società. Il prodotto giornalistico è messo in secondo piano. La priorità è fare utili anche a discapito della qualità. La buona notizia è che questo mestiere si può salvare e deve salvarsi. Lo può fare però solo e quando si darà nuovamente importanza alla qualità e al prodotto giornalistico. I giornali hanno bisogno di riguadagnare la fiducia dei lettori e la gente ha bisogno di un motivo per riprendere ad avere fiducia nei giornali. Tutto questo può accadere solo se i giornali riprendono a pensare e vedere il mestiere del giornalista come una responsabilità e un dovere prima ancora che a un business.
Quando vedi gallery sui quotidiani online di 170 foto cosa pensi?
Ho già risposto prima. Quantità prima della qualità. Sembra essere una costante che si ripete. La soluzione si avrà quando si comincerà a dare alle immagini lo stesso valore che viene dato al testo. Nessun giornale si sognerebbe di mandare in stampa o pubblicare online un articolo troppo prolisso e ripetitivo (salvo rare eccezioni). Ma la gallery di 170 foto invece va bene. Dov’è finita la capacità di sintesi? La colpa non è dei fotografi che sì, forse scattano un po’ troppo, ma dei giornali e dei photoeditor che non fanno ancora una volta il giusto filtro. Poi quanta libertà abbiano i photoeditor nel prendere queste decisioni non lo so. Sarebbe interessante ascoltare la loro posizione.
Quando ad un evento o su un fenomeno drammatico come le rotte migratorie attraverso i Balcani o ancora ai festival del cinema ti trovi con un numero di colleghi spropositato, cosa pensi?
Penso che il mestiere sia diventato più accessibile e che probabilmente ci sia più offerta che richiesta. Ma non lo vedo come un problema, ognuno ha il diritto di andare a vedere cosa succede in un luogo. Di provare a dare la propria chiave di lettura ad una storia. Quello che mi preoccupa è che l’eccessiva produzione di immagini, se non affrontata con un criterio di selezione ponderato, porta alla distruzione del nostro mestiere. Il problema non è che ad un giornale arrivino 2000 immagini di un singolo evento, il problema è che il giornale non effettua una selezione. Paradossalmente avere sul luogo un numero spropositato di fotografi è un vantaggio per un giornale che può avere diverse chiavi di lettura di un singolo evento, un diverso taglio o approccio nel raccontare la storia. Però bisogna anche avere le capacità e la voglia di riconoscere tale vantaggio e sfruttarlo al massimo producendo un contenuto che sia quanto più completo e vario possibile e che sia tagliato e pensato per il fruitore finale che è il lettore.
Tutte le immagini pubblicate nel presente articolo sono di © Guglielmo Mangiapane
Guglielmo Mangiapane nasce a Palermo il 22 settembre 1989, è un fotoreporter laureato in giornalismo presso l’Università degli studi di Palermo. Dal 2014 segue e documenta i fatti di cronaca, politica, giudiziaria, attualità, spettacolo e sport per le agenzie di stampa LaPresse e Reuters. Tra le principali storie che ha coperto: l’emergenza migranti nel Mediterraneo, il G7 a Taormina, le visite ufficiale del Presidente Mattarella in Sicilia e la campagna referendaria di Matteo Renzi. Le sue fotografie sono state pubblicate dai principali quotidiani italiani ed esteri, tra i quali: il New York Times, Guardian, Wall Street Journal, Libération, Zeit, Independent e Times.