Anche questa settimana torniamo online con una intervista ad un fotogiornalista.
Come avevo già scritto nella presentazione di questa rubrica, alcune settimane fa, il suo scopo è quello di far conoscere chi quotidianamente, attraverso il mestiere del fotoreporter, racconta storie e notizie, in sostanza racconta il mondo intorno a noi. Ma Gli invisibili vuole anche essere uno strumento di riflessione oltre che di conoscenza, una base attraverso la quale chiunque voglia portare un contributo può farlo. L’idea di ridefinire le basi economiche, valoriali, sindacali e culturali del nostro lavoro è un progetto ambizioso ma soprattutto lungo e complesso. Questo può diventare un orizzonte comune se a partecipare sono i protagonisti di questo contesto ma soprattutto se a ricomporsi è una veduta complessiva e condivisa di quelle che sono le assi portanti di questo mestiere, le stesse assi che dovrebbero sorreggere un discorso pubblico sulla dignità e la funzione del fotogiornalismo.
Questa rubrica quindi prova , un pezzo alla volta, ad essere l’inizio di una riflessione allargata sullo stato del fotogiornalismo e vuole farlo partendo da cosa pensano e come lavorano i fotoreporter.
La terza intervista ci racconta Nicola Marfisi, fotogiornalista di lungo corso con una importante esperienza professionale maturata con diverse agenzie fotogiornalistiche e una formazione antropologica.
Quando hai scoperto la tua passione per la fotografia?
La fotografia è una delle poche costanti nella mia vita e ha una storia lunga. In famiglia sono sempre circolate macchine fotografiche e cineprese Super8, ci sono cassetti stracolmi di foto e solo mia madre è a conoscenza dell’arcano della loro archiviazione. La prima foto che ricordo e di cui ho prova è una Polaroid, uno scatto ai tetti che si vedono dal balcone di casa e con sù scritta una bella dedica a mamma e papà, avrò avuto sei anni credo.
A 12 anni ho avuto in regalo la prima reflex, una Canon, ma posso dire che un uso serio, metodologico e di ricerca sul medium fotografico l’ho iniziato solo all’Università, a Perugia.
Intorno al 1996 grazie al corso di Antropologia Visuale è nata la prima camera oscura dentro casa e il mio interesse per la fotografia si è fatto concreto. La tesi di ricerca in Nepal mi ha poi definitivamente segnato, è stato il classico punto di non ritorno. Da quell’esperienza era nato anche un video documentario per la Rai, e per molto tempo video e foto hanno intrecciato il loro percorso, una storia che oggi in qualche modo si ripropone nell’evoluzione del mio lavoro di foto giornalista.
Intanto con gli amici di Perugia avevamo fondato il “Cuarto Nigro” un collettivo fotografico, ancora oggi attivo, che ha contribuito non poco ad affinare le mie conoscenze e la mia passione.
Quando è diventata un lavoro?
Dopo varie vicissitudini ho lasciato Perugia per trasferirmi a Milano. I primi mesi sono stati molto duri, segnati dall’invio di curricula senza alcuna risposta e il desiderio forte e urgente di fare delle mie conoscenze un lavoro vero e proprio. Un giorno, un ragazzo che abitava nel mio palazzo mi ha visto trafficare in cortile con delle stampe enormi che stavo preparando per una galleria d’arte di Positano, erano dei fori stenopeici, non so ancora quale fu il nesso ma sta di fatto che mi propose un colloquio con una agenzia fotografica milanese dove lui stesso lavorava.
Poco tempo dopo mi presento al direttore dell’agenzia con un corposo portfolio e lui dopo avergli dato uno sguardo superficiale mi fissa e mi gela con un “Ma ce l’hai il motorino?! Senza motorino questo lavoro non si può fare!”.
E’ così mi sono trovato catapultato nelle strade milanesi a seguire le news, principalmente per i quotidiani. La “cronaca”, da quella nera, alla politica, alla moda, gli eventi mondani e i personaggi del gossip e pure lo sport; tutti i giorni, domeniche comprese, sempre richiamabile di giorno e di notte, perché o è così o non lo fai questo lavoro.
Sono entrato nel mondo dell’editoria quasi per caso, con un passaparola e non nel modo strutturato che avevo immaginato. A dispetto di tutti i pro e i contro che ne sono seguiti, rimane per me una quotidiana esperienza antropologica di cui non posso più a fare a meno.
Lavori per qualche agenzia o sei un freelance?
E’ la domanda che mi rivolgono tutti i curiosi quando sono in giro su qualche servizio.
Sembra una domanda innocente e diretta in realtà è la chiave per capire cos’è oggi questo lavoro.
Ho cambiato almeno quattro agenzie prima di arrivare a quella che è stata la mia casa per quasi otto anni, l’agenzia Fotogramma, per cui ho coperto i maggiori eventi milanesi, nazionali ed esteri e che ho lasciato pochi mesi fa alla ricerca di nuovi stimoli. Attualmente il mio lavoro è in buona parte distribuito da AGF, una storica agenzia con base a Roma e con cui mi trovo molto bene.
In realtà la domanda esatta dovrebbe essere “riesci a fare il tuo lavoro senza affidarti ad alcuna agenzia?”. La mia esperienza fino ad oggi dice che senza una buona agenzia alle spalle fai veramente poco nel mondo delle news.
Ho sempre immaginato che essere freelance fosse una condizione imprescindibile per poter fare al meglio un lavoro foto-giornalistico sano, indipendente e pure remunerativo. Freelance è l’accezione storica e romantica del fotoreporter, è quella che più colpisce la memoria collettiva.
Freelance oggi è soprattutto chi tra mille equilibrismi di esclusive, vari tipi di contratti, conoscenze dirette di photo editors collabora con più agenzie e giornali parallelamente spesso con zero o quasi garanzie.
Gli stessi giornali sono sempre più chiusi, meno disponibili a lavorare con i singoli, la maggior parte di loro considera la fotografia una normale fornitura di materiale, per questo motivo fanno contratti sempre più al ribasso dei prezzi e con agenzie sempre più grandi, le uniche che riescono a competere nella contrattazione. Stanno progressivamente facendo sparire piccole e medie realtà che nel bene e nel male hanno contribuito alla storia del giornalismo italiano e di pari passo affossano anche chi, ancora oggi, ha il coraggio di definirsi e vivere da freelance, fuori dal circuito esclusivo delle grandi agenzie nazionali e internazionali.
Di cosa ti occupi nello specifico?
Io mi occupo di news, di cronaca, di una molteplicità di eventi che mi tengono al riparo dalla noia e che mi stimolano sempre a crescere e migliorare la qualità del mio lavoro. Per me vuol dire essere curiosi, versatili, pronti a qualsiasi tipo di situazione e saper portare a casa sempre un buon risultato o diciamo almeno vendibile.
Occuparmi di news in questo senso, mi da la possibilità di scegliere come e quali notizie approfondire e non è raro che da un singolo “fatto di cronaca” possa nascere una storia che poi continuo a curare, a volte per anni, diventando un progetto di più ampio respiro.
In cosa consiste il tuo lavoro quotidiano?
L’organizzazione quotidiana del lavoro parte dalla sera prima con la lettura e l’analisi dei comunicati di agenzia sugli eventi del giorno dopo. Insieme ad un’attenta lettura delle notizie nei quotidiani cartacei/online e l’ascolto delle news televisive si seleziona quello che si può fare e quello che va assolutamente fatto. Poi c’è la possibilità di esser richiesti per un particolare servizio direttamente dall’agenzia di riferimento e c’è pure la ricerca di piccole storie che possono essere proposte a magazines e quotidiani a vario titolo. In più, l’evento casuale, la cronaca vera, quella su cui tutti noi cerchiamo di esser presenti il più velocemente possibile e prima di tutti gli altri, quella in cui si deve esprimere il massimo.
Per quale motivo ritieni, e se lo ritieni, che il mercato dell’editoria fotografica sia in crisi? E come vedi il ruolo del foto giornalismo oggi alla luce della crisi del sistema editoriale?
La crisi del “sistema editoria” ha sicuramente a che fare con la generale crisi economica degli ultimi anni ma ha delle proprie peculiarità. Se si chiacchiera con colleghi veterani quello che vien fuori, aldilà di una evidente nostalgia per il passato, è che il sistema ha vissuto molto al di sopra delle proprie possibilità per troppo tempo. Quindi oggi è il tempo di un “reset”. Il punto è che da noi, in Italia, questo risanamento è stato selvaggio, tra tagli, licenziamenti e eliminazione di testate. Sarebbe come dire in termini naturalistici che oggi in questo ambiente c’è meno diversità biologica. Più in generale va detto che l’editoria italiana si è fatta totalmente trovare impreparata alla svolta digitale, al cambio dei supporti di fruizione delle notizie e alla continua richiesta di “contenuti” da parte del pubblico. Ne ha compreso il potenziale economico, il famoso “click/pubblicità”, ma se paragonato ad esempio agli Stati Uniti qui siamo messi come le scimmie di “2001: odissea nello spazio”, vedono quel totem, ne intuiscono le possibilità, ma non sanno ancora bene cosa farne. Comunque, al netto delle difficoltà che questo lavoro porta con sé, sono vagamente ottimista per il futuro. Ad esempio un settore che ha avuto un forte svilìppo negli ultimi anni è quello dei libri fotografici il che significa che c’è un generale desiderio di crescita culturale rispetto all’oggetto fotografia e questo nel tempo farà la differenza.
Secondo te è corretto dire che il foto giornalismo è morto, questa affermazione ha secondo te un fondamento di verità?
Se il foto giornalismo fosse morto io sarei evidentemente uno zombie!
Un caro saluto al mitico George A. Romero. Non c’è molto altro da aggiungere, altrimenti perché staremmo qui a parlarne?
Ammesso che esista, quale è per te l’etica del foto giornalismo?
L’etica è un concetto superiore che investe l’agire umano in tutti i suoi aspetti culturali. In questo senso parlare di etica del foto giornalismo è un po’ riduttivo. Si può certo parlare di regole peculiari e condivise di cui l’etica in generale ne è il riferimento e la guida. Sono regole chiare, certo non sempre vengono rispettate a pieno e sono pure in qualche modo elastiche nella loro attuazione, ad esempio variano a seconda dal paese o dalla cultura a cui si appartiene o anche dalla direzione politica di un editore rispetto ad un altro e sicuramente dall’interpretazione del singolo. Ogni volta che si solleva questo tema a me vengono in mente due cose, una è “Get the picture” il titolo di un famoso libro di John Morris, storico photoeditor di Life del secolo scorso e l’altra è una parte di quel corpo di regole su dette. La cito direttamente dal codice comportamentale per i fotografi di una importante agenzia internazionale: “Trattate ogni soggetto con rispetto e dignità. Abbiate particolare considerazione per i soggetti più vulnerabili e abbiate compassione per le vittime di crimini o tragedie. Intromettetevi in momenti privati di dolore solo laddove vi sia una necessità imperativa e giustificabile di mostrare quelle immagini al pubblico”.
E’ nella mediazione che ognuno di noi fa di volta in volta, tra l’imperativo “portare la foto a casa” e il rispettare la dignità delle persone che fotografiamo, che si deve sviluppare il discorso etico nel nostro lavoro.
Quale è il significato oggi di “fare informazione”? Il fenomeno del citizen journalist non è arrestabile e ha ridefinito nuove modalità del mestiere del giornalista e del foto giornalista. Quali saranno a tuo avviso le prossime evoluzioni? In che direzione andrà questo mestiere?
Fare informazione per me significa soprattutto “esserci”, stare dove c’è la notizia. Non si può prescindere da questa minima fondamentale condizione. Insieme a questa c’è il rispetto di regole che definiscono la nostra professione come “giornalistica”.
Il citizen journalism è nato grazie a due strumenti lo smartphone e internet.
Io credo che quando si parla di questo tipo di produzione di notizie si faccia una generale confusione tra lo strumento che si usa e l’intenzione stessa di fare giornalismo. L’approccio fa sempre la differenza, si può trattare una notizia in termini giornalistici con qualsiasi mezzo che registri immagini, video, suoni o con i classici penna e taccuino. Il punto è che se non condividi delle regole semplicemente non sei un giornalista.
D’altro canto è ovvio che una persona che si trova su un evento di cronaca e che abbia uno smartphone realizzerà dei contenuti che nessun professionista arrivando anche solo dieci minuti dopo potrà produrre, per questo motivo quel materiale sarà parte integrante della narrazione.
Si pensi a quante guerre sono state raccontate negli ultimi anni grazie agli smartphones ma anche a quanti dubbi di mancanza di obiettività, accuse di propaganda o di “fake news” si sono sollevate proprio per l’assenza di una garanzia su quei materiali.
Diversa è la considerazione sull’uso spregiudicato che i giornali fanno di questo tipo di informazioni, sembra quasi che questi si appiattiscano sempre più sullo stile non-professionale solo per dare un feedback maggiore, per far sentire i cittadini parte della notizia, in sostanza l’idea è che in questo modo si venda di più. La cosa peggiore, però, è che questo atteggiamento scredita la nostra reputazione professionale e le conseguenze le viviamo sulla pelle tutti i giorni: sempre più ostacoli, il valore economico delle fotografie che scende di anno in anno, il generale “tutti possono essere fotografi”.
Non potendo più tornare indietro ormai, quello che vorrei è che si sviluppasse una consapevolezza maggiore sulla fotografia da parte di tutti, cosa che in Italia, per adesso, manca.
Quando vedi gallery sui quotidiani online di 170 foto cosa pensi?
Se i prezzi delle foto online fossero quelli di 10 anni fa diciamo che ne basterebbe la metà per un mese d’affitto e non sarebbe affatto male! Battute a parte non c’è nulla da meravigliarsi, si tratta semplicemente di una delle prove del cortocircuito che stanno vivendo i giornali online nel rapporto economico tra click e pubblicità.
Quando ad un evento o su un fenomeno drammatico come le rotte migratorie attraverso i Balcani o ancora ai festival del cinema ti trovi con un numero di colleghi spropositato, cosa pensi?
Credo che i due esempi nella tua domanda siano un po’ diversi.
Non si può impedire che alla vecchia stazione di Belgrado arrivi un numero esagerato di fotografi, non serve l’accredito e non c’è un posto di blocco all’ingresso che verifica se hai o no un tesserino dell’ordine dei giornalisti, fosse quello a fare la differenza. Certo non voglio credere sia per una generica moda del reportage né peggio per un gusto sadico del racconto delle tragedie umane. In molti casi io ho incontrato persone sincere anche se troppo spesso allo sbaraglio. Non si può certo impedire che i più giovani si avvicinino alla fotografia e alle tematiche sociali, quello che serve è sicuramente una profonda preparazione. Affrontare la sofferenza umana per raccontarla ad altri non è certo come fare un viaggio, un’esperienza.
La cosa più importante rimane il rispetto, da parte di tutti, professionisti e non, per le persone e le situazioni che si fotografano.
Ovviamente c’è pure il non intralciare o peggio compromettere il lavoro altrui con gesti scellerati.
In questo caso si può essere certi che ci sarà sempre qualcuno che farà notare con “pacate” parole che non ci si sta comportando nella maniera appropriata.
Cosa diversa è trovarsi ad una sfilata di moda o al festival del cinema di Venezia ed essere circondati da bloggers che non ti fanno lavorare bene come vorresti. In quel tipo di eventi serve un accredito e loro ce l’hanno. Il punto è che ci sono delle situazioni in cui sono più rispettati loro che i professionisti. Fino a quando faranno comodo agli uffici stampa ci saranno, anzi sospetto che aumenteranno mentre noi diventeremo sempre meno.
In definitiva va detto che se da un lato non è più possibile immaginarsi come “unici” nella produzione e trasmissione di notizie dall’altro tutto il sistema andrebbe un po’ più regolamentato. Di sicuro, torno a ripetere, se ci fosse più cultura dell’immagine crescerebbe proporzionalmente anche il rispetto per il lavoro che noi, più o meno “invisibili”, ogni giorno facciamo con dedizione e forza incrollabili.
Bio:
Nicola Marfisi (Italia 1973) fotografo e documentarista ha iniziato la sua carriera subito dopo gli studi di antropologia all’Università di Perugia grazie ai quali si è focalizzato sull’analisi delle culture e sui conflitti sociali. Dal 2008 a Milano inizia la collaborazione con diverse agenzie fotografiche, nazionali e internazionali, con i principali quotidiani e magazines italiani ed esteri.
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