L’intervista che vi propongo oggi per la nostra rubrica Gli invisibili è ad Alessandro Di Meo, romano, fotogiornalista dell’agenzia Ansa.
Prima di entrare nel vivo del racconto che Alessandro ci fa del suo lavoro voglio dedicare qualche parola a quanto accaduto la scorsa settimana ad Ostia: l’aggressione violenta e ingiustificata che Roberto Spada, fratello di Carmine Spada, uno degli esponenti dei clan malavitosi di Ostia, ha fatto al giornalista della Rai Daniele Piervincenzi.
L’aggressione che ha provocato la frattura del naso del collega della Rai, non ha soltanto un grave valore simbolico bensì rappresenta il segno tangibile e materiale del fastidio e dell’insofferenza difronte a domande scomode, del rifiuto del confronto verbale su posizioni divergenti e dell’uso della violenza fisica come strumento risolutore di una conversazione non gradita, di una presenza, quella di Piervincenzi, che non andava a genio all’energumeno Spada. Purtroppo la crisi che la politica, intesa come elemento identitario e forma di rappresentanza, sta attraversando nel nostro paese lascia spazio al rafforzamento di movimenti e soggetti politici come Casapound al quale il clan Spada sembra essere legato. Un mix di bullismo, violenza, razzismo, fascismo e cultura del più forte che pervade e in parte affascina diverse fasce sociali della nostra società. Ai tanti attestati di solidarietà al giornalista della Rai, ce ne sono stati tanti altri nei confronti di Spada. Il dato che però colpisce è il combinato disposto del risultato elettorale attenuto da Casapound alle elezioni del 5 novembre scorso per il municipio di Ostia e l’atteggiamento sfacciato, spregiudicato, quasi a dimostrare che lì si fa così, che lì abbiamo vinto noi, che ha portato Roberto Spada a fratturare con una testata il setto nasale di Piervincenzi: se mi rompi le scatole ti tiro una testata, punto. Casapound ad Ostia ha ottenuto il 9% di consensi con il candidato Marsella e sarà l’ago della bilancia al prossimo ballottaggio tra l’esponente grillino e quello del centro destra.
Witness Journal nasce proprio per allargare i canali di informazione, per ampliare e arricchire le possibilità di approfondimento, così anche la nostra rubrica, Gli Invisibili, vuole raccontare e dare voce ai tanti colleghi fotogiornalisti che tutti i giorni fanno informazione e lo fanno ribadendo un concetto fondamentale: che l’informazione non può e non deve subire forme di intimidazione.
Adesso diamo spazio all’intervista ad Alessandro Di Meo.
Quando hai scoperto la tua passione per la fotografia?
Alle superiori mi ero iscritto all’Istituto di Stato per la cinematografia e televisione Roberto Rossellini per fare grafica pubblicitaria. Disegnavo bene e volevo provare a intraprendere quella strada.
Il primo anno della scuola però era uguale per tutti e poi avremmo dovuto scegliere la specializzazione, durante quell’anno partecipai ad un laboratorio di fotografia. Non scorderò mai la magia nel vedere l’immagine comparire lentamente sul foglio di carta fotografica immersa nello sviluppo. Cominciando a giocare con la Nikon FE di mio padre iniziai ad appassionarmi seriamente alla fotografia, tanto che decisi di lasciar perdere la grafica pubblicitaria e mi specializzai proprio in fotografia. Ancora oggi, per piacere mio, continuo a scattare in pellicola sviluppando e stampando a mano i negativi in bianco e nero. Per il mio lavoro quotidiano ovviamente uso solo macchine digitali.
Quando è diventata un lavoro?
Già quando andavo a scuola ho iniziato a lavorare come assistente, prima per una fotografa di moda e poi per un fotografo d’arte e di architettura. La mattina andavo a scuola e il pomeriggio andavo a lavorare. Un giorno da una piccola agenzia fotogiornalistica chiamarono da scuola per sapere se c’era qualche giovane diplomato in fotografia disposto ad iniziare a collaborare. Il professore fece il mio nome e così iniziai a frequentare l’ambiente del fotogiornalismo. Scattavo in diapositiva, fu la mia seconda scuola di fotografia. A scuola avevo studiato tantissima tecnica e con questo lavoro potevo applicare alla realtà quanto avevo studiato.
Lavori per qualche agenzia o sei un freelance?
Dopo 17 anni di partita iva e collaborazioni sono stato assunto dell’Agenzia ANSA con cui collaboro collaborato da più di 14 anni.
Di cosa ti occupi nello specifico?
Sono un fotogiornalista della più importante agenzia di stampa italiana e quindi devo essere in grado di occuparmi di tutto: eventi di politica, di sport, di spettacolo, crisi sociali e cronaca. Ci sono tematiche e argomenti che mi piacciono e che mi appassionano di più, ma non sono specializzato in nessun genere fotografico. Questo significa che devo tenermi costantemente informato su tutto e che devo essere tecnicamente pronto ad affrontare qualsiasi sfida. Diciamo che non mi annoio.
In cosa consiste il tuo lavoro quotidiano?
L’agenzia ANSA segue ogni giorno i più importanti avvenimenti sul territorio nazionale. Alcuni programmati e altri assolutamente imprevedibili. Il mio lavoro quotidiano consiste nel seguire sia gli uni che gli altri. Ogni giorno si sa come inizia, ma non si può mai sapere come andrà a finire. La cosa fondamentale credo sia essere preparati a tutto. La preparazione deve essere anche giornalistica visto che un fotogiornalista è un giornalista che racconta notizie attraverso le immagini. Non sapere cosa si sta fotografando significa inevitabilmente lavorare male e superficialmente.
Il mio lavoro consiste nel raccontare le notizie, in modo corretto e adeguato, attraverso le immagini fotografiche impiegando il minor tempo possibile. Successivamente invio le immagini selezionate alla redazione che le distribuisce a tutti i giornali. Prima di inviarle però devo ridimensionarle secondo gli standard richiesti dalla mia agenzia, fare qualche minima regolazione e, cosa fondamentale, scrivere la didascalia che deve rispondere alle famose cinque domande del giornalista: chi, cosa, quando, dove e perché.
Per quale motivo ritieni, e se lo ritieni, che il mercato dell’editoria fotografica sia in crisi?
Ci sono pochi soldi, in crisi è l’intero mondo dell’editoria e ci sono diversi modi per reagire alla crisi: tagliando o investendo sulla qualità. Purtroppo in Italia si è scelta la prima soluzione, la più facile. I fotogiornalisti sono di fatto l’anello più debole e anche i meno rappresentati a livello sindacale: invece di costruire sinergie e collaborazione nella rivendicazione dei propri diritti spesso scelgono un approccio più individualista. Uno raccoglie quello che ha seminato, mi sembra evidente che abbiamo seminato male. Noi e chi ci ha preceduto.
Come vedi il ruolo del foto giornalismo oggi alla luce della crisi del sistema editoriale?
Lo vedo fondamentale. Sempre più spesso i giornalisti che scrivono articoli sono costretti a lavorare dalla redazione, usando le agenzie di stampa. Il fotogiornalista invece deve essere necessariamente in prima linea, il suo ruolo è essere testimone dei fatti e documentarli.
Secondo te è corretto dire che il foto giornalismo è morto, questa affermazione ha secondo te un fondamento di verità?
Assolutamente non sono d’accordo. Sono diminuiti notevolmente i soldi, ma non la “missione”. E’ assolutamente fondamentale essere rigorosi e corretti nel proprio lavoro. Capita sempre più spesso che i giornali usino le foto scattate da passanti con i loro cellulari oppure foto trovate in rete correndo il rischio di incappare in bufale e fotomontaggi. Il fotogiornalista deve essere attendibile e sempre, sempre, sempre corretto. Il timbro clone è da abolire come anche certi “smanettamenti” esasperati dei file. Si dovrebbe fare al computer quello che si faceva in camera oscura con l’ingranditore e correggere il bilanciamento del bianco. Stop.
L’Associated Press ha licenziato Narciso Contreras, vincitore del Premio Pulitzer nel 2013, e cancellato tutte le sue foto dall’archivio dopo aver scoperto che aveva manipolato un’immagine scattata durante la guerra civile in Siria. Aveva “semplicemente” fatto sparire una telecamera che gli era entrata nell’inquadratura cancellandola con Photoshop. Alcuni hanno ritenuto la punizione eccessiva, io invece la ritengo giustissima. Dal momento che viene meno la credibilità di una singola foto, viene meno la credibilità del lavoro di una vita. Questo non ce lo possiamo permettere perché la nostra forza deve essere proprio questa, la credibilità.
Ammesso che esista, quale è per te l’etica del foto giornalismo?
L’onestà intellettuale. Il mio faro è l’onestà. Sono consapevole della responsabilità che ha chi lavora nel mondo dell’informazione. Il “mitico” direttore dell’ANSA Sergio Lepri diceva ai giornalisti “Sei libero di avere le tue idee politiche, ma non devo capire per chi voti da quello che scrivi”. Ecco, io cerco di impostare il mio lavoro provando a non far capire le mie idee politiche, cerco, attraverso le mie immagini, di fornire uno strumento per farsi un’opinione senza cercare di imporre la mia.
Posso confidarti che alcune volte è stato veramente difficile.
Quale è il significato oggi di “fare informazione”? Il fenomeno del citizen journalist non è arrestabile e ha ridefinito nuove modalità del mestiere del giornalista e del foto giornalista. Quali saranno a tuo avviso le prossime evoluzioni? In che direzione andrà questo mestiere?
Vorrei che si facessero più inchieste, e vorrei che il giornalismo in Italia fosse più scomodo. Vorrei vedere più approfondimenti e quindi meno superficialità anche se ad essere sincero andrebbe rieducato anche il lettore. Basta vedere le notizie sui siti dei maggiori giornali italiani per capire cosa vuole il pubblico. E se dessimo sempre retta al pubblico, allora in prima serata tv dovremmo vedere solo film porno. Leggere una lunga inchiesta è più faticoso, ma ti permette di capire veramente un argomento. In quest’ottica il citizen journalism deve essere di stimolo per tutti.
Quando vedi gallery sui quotidiani online di 170 foto cosa pensi?
Che ogni click sono soldi. Foto un tanto al chilo. Spesso le redazioni dei giornali online sono ridotte all’osso e ogni singolo redattore deve occuparsi di più cose contemporaneamente. “Buttare secchiate di foto” in una gallery fa risparmiare tempo perché non richiede una selezione attenta e contestualmente porta molti click. Una foto costa meno di un articolo e in un certo senso rende di più.
Quando ad un evento o su un fenomeno drammatico come le rotte migratorie attraverso i Balcani o ancora ai festival del cinema ti trovi con un numero di colleghi spropositato, cosa pensi?
Nel caso dell’esempio sulle rotte migratorie penso che a volte, invece che scattare per dare visibilità ad una notizia, si scatta per dare visibilità a se stessi. Certe notizie tirano più di altre, sui giornali ma soprattutto nei concorsi. Se fai delle foto per vincere dei premi hai fallito e hai tradito la tua missione. Capisco che la concorrenza è spietata e che c’è un grande bisogno di emergere, di farsi notare, di avere visibilità, ma la strada più semplice non sempre è la migliore o la più giusta.
Uno dei miei fotografi preferiti è Martin Parr, foto colorate, divertenti e irriverenti. Parr sta raccontando il nostro tempo come pochi altri. La sua è stata una strada difficile, ma è a suo modo unico. Ognuno di noi lo è, ma troppo spesso ci addomestichiamo per cercare di piacere. Ha perfettamente ragione Oliviero Toscani quando dice che: « La ricerca ossessiva del consenso crea mediocrità ».
Alessandro Di Meo è nato a Roma il 28 Dicembre 1978.
Ha conseguito il diploma in fotografo di scena e fotoreporter presso l’Istituto di Stato per la Cinematografia e Televisione Roberto Rossellini.
Dopo diverse esperienze nei settori della fotografia di moda, d’arte e di architettura, dal 2003 collabora come fotogiornalista con l’agenzia ANSA e dal 2014 è diventato fotografo di staff.
Svolge il suo lavoro con estrema attenzione avendo cura del particolare e cercando di raccontare fatti e notizie con la consapevolezza che il suo è soltanto un “punto di vista”.
Continua a perseguire progetti personali.
Nel corso degli anni ha vinto diversi premi tra cui:
Alliance of mediterranean news agenzies – AMAN con la miglior foto nell’anno 2012-2013 e XXXIV Premio Ischia Internazionale di giornalismo con il miglior reportage dell’anno 2013