Gli invisibili #12

Storie, interviste e contributi di fotoreporter tenaci

Un govane profugo siriano si affaccia da un buco della sua tenda, in un campo profughi non autorizzato nella periferia di Killis. Confine tra Turchia e Syria

Da poche ore si inizia delineare il quadro elettorale uscito dalle urne questa notte. L’Italia è andata al voto ed ha scelto a quali forze politiche affidare il governo del paese. Ne è uscito un risultato, non ancora definitivo, ma che prospetta un orizzonte politico non chiaro e dove è sicuro che serviranno alleanze per definire un progetto di governabilità.

In modo specifico escono dalle urne come vincitori il Movimento 5 Stelle, primo partito in Italia, e la coalizione di centro destra a trazione leghista, inversione di marcia questa, che caratterizza l’elemento di novità di questa tornata elettorale. Il resto, soprattutto la sinistra, è tutto da archiviare anche se nel processo delle alchimie politiche e delle alleanze tutto o quasi può ancora succedere.

Si vince avendo i numeri e rispettando la scelta dei cittadini. Vedremo nelle prossime ore e nei prossimi giorni quali saranno gli sviluppi e come deciderà di avviare le consultazioni il capo dello Stato, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Ho deciso, come apertura dell’intervista di questa settimana de Gli Invisibili, di fare un breve commento a quanto accaduto tra ieri e le prime ore di oggi, perché se è vero che il voto va rispettato, è altrettanto vero e legittimo commentare il risultato uscito dalle urne. Quello che è accaduto, e che in parte era nell’aria, (ne abbiamo parlato il 23 febbraio con un articolo), è stata una vittoria sostanziale e diffusa dei partiti populisti e con un approccio anti europeo. È vero che il M5S nelle ultime settimane ha dato dei segnali di rassicurazione sia ai mercati che all’establishment europeo, ma l’elettorato medio resta comunque scettico e fortemente critico verso la dimensione europea. Per quanto riguarda la Lega di Matteo Salvini invece il dubbio non c’è, la questione immigrazione e l’anti europeismo, sono stati i cavalli di battaglia della Lega ormai affermatasi al 18% come partito nazionale e come forza di maggioranza della coalizione di centro destra.

Si vince dunque con parole d’ordine che vanno alla pancia, alle paure e alle frustrazioni dei cittadini, si vince anche con problematiche, come quella dell’immigrazione di “massa” che rappresentano delle vere e proprie falsità. Ma chi vince vince e chi perde perde, su questo dubbi non ce ne sono. Dunque è sul dato che si deve riflettere e soprattuto dove porterà questa nuova immagine dell’Italia scansita dalle ultime elezioni politiche.

Intanto, almeno per quanto ci riguarda, resterà il nostro impegno verso le storie di approfondimento ma con un occhio sempre attento al contesto che ci circonda, per non restare avulsi difronte ai cambiamenti del presente e per continuare a portare avanti un linguaggio ed un pensiero di inclusività, di ascolto e comprensione.

L’intervista che vi propongo oggi è a Stefano Stranges, fotoreporter attento alle questioni sullo sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente. Reduce da un grande lavoro sui giacimenti di Coltan in Africa.

 

Quando hai scoperto la tua passione per la fotografia?

Fino al 2001 odiavo la fotografia. Questo perché non avevo una cultura fotografica adeguata e le immagini erano prevalentemente fotografie di viaggio scattate da amici e parenti e con l’intento di far rivivere le emozioni di un ricordo. Per me risultavano alla fine un po’ tutte uguali. Eravamo per fortuna ancora nel periodo dove uno scatto aveva un costo.

Un giorno, camminando per i vicoli della mia città, mi venne spontaneo fermarmi davanti a un dettaglio in un angolo della strada. Era un soggetto che normalmente una persona non perde tempo a ritrarre, ma per me era curioso e lo inquadrai con le mani come per incorniciarlo. Da quel giorno iniziai a portare sempre con me una piccola reflex Olympus rubata dall’armadio di mio padre.

Improvvisai una camera oscura in camera da letto e iniziai a sperimentare e sviluppare i miei primi scatti. Ovviamente da lì incominciai a comprare libri di fotografia dei grandi maestri e di bravi artisti poco conosciuti.

Quando è diventata un lavoro?

Nel 2004, dovevo ancora laurearmi in Comunicazione Interculturale, iniziai a farei miei primi lavori pagati, come assistente per un amico fotografo part time e facendo qualche test-shooting per agenzie di moda di Milano.

Nel 2006, dopo essere stato selezionato per interpretare artisticamente l’uscita della Kawasaki ER6n, inizio a “vivere” esclusivamente di fotografia, lavorare per alcune agenzie di Comunicazione e nel campo della moda.

In quel periodo cercai di entrare anche nel mondo della fotografia reportagistica, cosa che fin dall’inizio mi appassionava particolarmente. Trovai una collaborazione con una piccola agenzia stampa di Milano, coprendo gli eventi sociali e politici piemontesi, impegno che lasciai dopo pochi mesi per dedicarmi a qualcosa di più remunerativo.

Negli ultimi anni, più precisamente dal 2012, sono riuscito a ritornare lavorativamente parlando in quel settore, trovando però più spazio per reportage a lungo termine o progetti fotografici non essenzialmente legati alla cronaca. Diciamo che con questa scelta non ho privilegiato l’aspetto prettamente economico.

Lavori per qualche agenzia o sei un freelance?

Sono un freelance.

Di cosa ti occupi nello specifico?

Il mio lavoro negli ultimi anni si focalizza principalmente su temi sociali e storie di denuncia. Collaboro saltuariamente con riviste che danno spazio a reportage documentaristici, che non siano soltanto l’ultimo fatto di cronaca, oppure con ONG che operano in situazioni umane delicate.

Spesso nel mio lavoro sono infatti accompagnato da un giornalista che si occupa della stesura dei testi.

In cosa consiste il tuo lavoro quotidiano?

Buona parte del mio lavoro quotidiano non è soltanto la fase dello scatto e della produzione del materiale fotografico: la prima fase di un progetto documentaristico è quella di cercare le storie che possono rivelarsi interessanti e che meritano di essere approfondite. Il secondo passaggio consiste nel trovare tutti i possibili supporti sul campo, tutte le informazioni sull’argomento, si tratta di studiare in modo preciso e approfondito ciò che si può già sapere sulla storia, per poi capire come muoversi per realizzarla.

Dopo avere realizzato gli scatti, il grande lavoro è quello di ricostruire, attraverso l’editing del materiale prodotto, una storia raccontata per immagini capace di essere incisiva, efficace e comprensibile. Spesso anche questa fase avviene con la collaborazione del collega giornalista che con me ha vissuto la storia e che può dunque creare una coerenza tra le immagini e i testi.

 

Per quale motivo ritieni, e se lo ritieni, che il mercato dell’editoria fotografica sia in crisi?

Credo che da un po’ di anni sia avvenuto un sostanziale cambiamento nel rapporto tra il fotografo professionista e l’editoria fotografica. Suppongo che questo sia dovuto ad una maggiore possibilità di reperire grosse quantità di storie e immagini a costi decisamente più bassi rispetto al passato. Tantissimi giovani emergenti, spesso molto bravi ma a volte senza esperienza, si buttano letteralmente sul “campo di lavoro” perché di più facile accesso. Questo causa un bombardamento di immagini e storie che non trovano lo stesso entusiasmo nella domanda e in certi casi lo spazio per la pubblicazione viene considerato già di per sé come un riconoscimento.

Ammesso che esista, quale è per te l’etica del foto giornalismo?

Esiste un’etica deontologica nel fotogiornalismo, che è quella che ogni collega dovrebbe ricordare, ma che sempre più spesso viene evidentemente dimenticata.

Personalmente cerco sempre di andare a fondo il più possibile in una storia, cercando sì una forma di soggettività formale, forse a volte anche troppo autoriale, ma allo stesso tempo mi impegno a restare onesto e il più possibile oggettivo nella ricerca del perché.

Inoltre credo che al giorno d’oggi, ancora più dei tempi passati, occorrerebbe mantenere una sorta di “dignità davanti al dolore”, non oltrepassare certi confini anche se spesso poi fanno vendere.

Ma su questo argomento i casi sono sempre estremamente singolari e sta alla sensibilità dell’autore considerare il limite.

Secondo te è corretto dire che il foto giornalismo è morto, questa affermazione ha secondo te un fondamento di verità?

Forse è il Buon giornalismo che sta morendo, o meglio, non ha più un adeguato spazio sugli organi di informazione.

Quale è il significato oggi di “fare informazione”? Il fenomeno del citizen journalist non è arrestabile e ha ridefinito nuove modalità del mestiere del giornalista e del foto giornalista. Quali saranno a tuo avviso le prossime evoluzioni? In che direzione andrà questo mestiere?

Il fenomeno del Citizen reporter, esploso in particolare con le Primavere Arabe, le manifestazioni di Gezi Park e quelle di Maidan in Ucraina, sono ciò che l’utente di oggi richiede: qualità trascurabile ma immediatezza sulla notizia.

Credo che questo fenomeno influisca solo in parte con il mestiere del fotogiornalista. Quando una storia va raccontata e approfondita e non si limita alla breaking news, occorre avere il proprio bagaglio culturale e professionale. Non credo che mancheranno mai delle storie interessanti che meritano di essere viste.

Stiamo vedendo proprio in questi giorni l’efficacia della presenza di Citizen reporters, spesso addirittura bambini, che filmano e fotografano gli ultimi attacchi nei territori siriani, in una guerra che non risparmia nemmeno una corsia umanitaria per i soccorsi.

Forse se ci fossero stati Citizen reporters anche durante uno dei momenti peggiori della guerra in Bosnia, riferendomi al genocidio di Srebrenica, avremmo saputo subito che la vera tragedia umanitaria stava avvenendo a poche decine di chilometri rispetto alla concentrazione dei Media.

Quando vedi gallery sui quotidiani online di 170 foto cosa pensi?

Penso che occorra essere dei buoni editor dei propri lavori, e questo, almeno per quanto mi riguarda, è una delle parti più complesse del nostro lavoro. Spesso non riusciamo a liberarci di un’immagine che evoca in noi un momento importante dell’esperienza vissuta, o non riusciamo a scegliere un’immagine piuttosto che un’altra. Non siamo in grado di sintetizzare al meglio. Per questo ritengo che sia sempre utile un terzo occhio di qualche collega fidato o semplicemente di amici che non conoscono la vicenda nel dettaglio. Una gallery di 170 foto è come un backstage di un lavoro che dev’essere ancora rifinito.

Se la scelta è invece stata fatta da un photo editor, forse sarebbe meglio tornare a studiare il linguaggio fotografico.

Quando ad un evento o su un fenomeno drammatico come le rotte migratorie attraverso i Balcani o ancora ai festival del cinema ti trovi con un numero di colleghi spropositato, cosa pensi?

Mi è capitato di essere presente in una delle manifestazioni a Gezi Park, Istanbul, dove ero casualmente per un altro servizio. Arrivato davanti all’evento, mi sono reso conto di essere ai lati di un’arena con almeno un centinaio di fotografi e videoreporter disposti sui lati e altrettante persone tra polizia e manifestanti che al centro dello spazio si scontravano. Ho deciso di andarmene, pensando poi che avrei invece potuto fare uno scatto interessante inquadrando le schiere di colleghi attorno allo “spettacolo”. Cerco sempre di evitare situazioni simili, sempre più frequenti sui grandi avvenimenti.

 

 

 

Stefano Stranges, laureato in Comunicazione interculturale, inizia a lavorare come fotografo nel 2006 nel campo della moda, eventi e reportage di viaggio, collaborando con agenzie del settore. Nel 2012 si specializza con un Masterclass dell’Agenzia Magnum. Da allora i suoi lavori si focalizzano su tematiche sociali e inizia a collaborare con ONG nazionali e internazionali. Dal 2013 al lavoro di fotoreporter affianca quello didattico in scuole e centri di formazione. Nel 2017 allarga i suoi interessi al tema dell’educazione all’immagine, attività che svolge in alcuni istituti superiori e circoli fotografici torinesi insieme ali colleghi del progetto didattico CollettivoX, di cui è co-fondatore. Attualmente è impegnato in un progetto a lungo termine sulla filiera del materiale tecnologico, partendo dalle aree minerarie di Coltan in Africa, dal quale è nata la mostra itinerante “The victims of our wealth” (Finalista al Sifest Premio Pesaresi 2016, Menzione d’onore International Photographer of the Year 2017). I suoi reportage sono stati pubblicati da Rolling Stone, Il Reportage, Il Manifesto, La Stampa, Jesus Magazine e Voci Globali. Dal 2017 è membro del collettivo fotogiornalistico Walkabout–Ph.