Gli invisibili #11

Storie, interviste e contributi di fotoreporter tenaci

Albania, 1997. Madri piangono i figli morti nell’esplosione della base militare di Qafa Shatama. (foto P. Siccardi)

Questa settimana pubblichiamo l’intervista ad un fotoreporter di lungo corso, Paolo Siccardi. Questa intervista è una riflessione sul senso di questo lavoro e sul valore delle immagini che raccontano il mondo che ci sta intorno, su quanto continui a pesare e ad influire sulla percezione e sulla consapevolezza della condizione umana il mestiere del reporter.

Nel 2010 uscì anche in Italia uno dei libri più illuminanti sul mondo della comunicazione web, Surplus Cognitivo, di Clay Shirky, uno dei massimi esperti di web e comunicazione digitale. Anche se ormai datato continua ad avere elementi di contemporaneità e del tutto attuali.

La tesi del libro ruota intorno al tempo libero e a come decidiamo di impiegarlo: con l’applicazione della giornata di lavoro a otto ore nelle società del ‘900 si è creata una quantità di tempo libero prima inesistente, dice Clay Shirky.

Con la diffusione della tv, il tempo libero veniva impiegato in modo unidirezionale, fruendo di una forma di intrattenimento passivo e non creativo, poi con il web e con i social media, l’iterazione con i contenuti digitali diventa creativa, produttiva e condivisa, nel senso che i contenuti prodotti sul web vengono anche condivisi, vi è dunque un passaggio alla dimensione pro attiva nell’impiego del proprio tempo libero.

Questa modalità di interazione con gli strumenti tecnologici, le forme e i saperi del web coinvolge anche le immagini, che diventano tra i contenuti maggiormente condivisi sulla rete. In questo quadro si apre uno spazio ampio e importante per la narrazione approfondita del mondo e delle società, uno spazio dove il fotogiornalismo avrebbe dovuto trovare un posizionamento di rilievo ed invece è stato relegato prevalentemente alla formazione di ‘gallery da batteria‘. Questo nel migliore dei casi, nel peggiore l’immagine è diventata la merce di scambio con la quale transare traffico sul web.

Di questo e di altri aspetti ce ne parla Paolo durante l’intervista.

 

Quando hai scoperto la tua passione per la fotografia?

La fotografia è sempre stata parte della mia vita, fin dall’età di dodici anni quando mio papà mi regalò una fotocamera reflex russa. Da lì in poi ho iniziato a fotografare tutto quello che attirava la mia attenzione prediligendo i soggetti con le persone.

Quando è diventata un lavoro?

Praticamente la passione per la fotografia si è trasformata subito in un lavoro, appena compiuti diciotto anni e vivendo a cavallo degli “anni di piombo” a Torino ho seguito inizialmente i movimenti e i circoli politici che hanno caratterizzato i cambiamenti di quel decennio.

Lavori per qualche agenzia o sei un freelance?

Ho passato i primi dieci anni della mia gioventù a lavorare nello staff dell’Agenzia Contrasto seguendo la fine del terrorismo e le lotte operaie di quel periodo fino alla fine degli anni ’80. È stata certamente una grande esperienza di crescita professionale. Per un buon periodo ho lavorato costantemente con L’Espresso sull’attualità e la politica nel nord Italia. Con la prima Guerra del Golfo e l’inizio del conflitto nell’ex Jugoslavia sono entrato nello staff dell’Agenzia Marka, dove avevo un accordo economico mensile garantito e le percentuali sulle vendite delle mie fotografie, un altro modo di lavorare e grande professionalità nella costruzione dei servizi per i giornali. Con l’inizio della grande crisi editoriale, che ha colpito anche le agenzie fotografiche, ho deciso di concentrare le mie energie con un solo giornale, Famiglia Cristiana, con cui lavoro dal 2000 in collaborando con la redazione esteri e interni.

Di cosa ti occupi nello specifico?

Con la redazione di Famiglia Cristiana mi occupo esclusivamente di servizi nel campo del sociale e della politica. A volte propongo tematiche di mio interesse oppure è la redazione stessa che mi manda direttamente a coprire determinati eventi esteri come: la Siria, il Sud Sudan, Gaza e Cisgiordania, l’Ucraina e ultimamente le rotte migratorie.

Quando vengo inviato dalla redazione sono sempre affiancato da un collega per quanto riguarda la parte testuale, se invece propongo un argomento devo occuparmi anche della parte scritta.

In cosa consiste il tuo lavoro quotidiano ?

Sicuramente tengo sotto controllo tutte le informazioni che possono interessarmi in base agli argomenti che seguo normalmente, mantengo i rapporti con i miei canali preferenziali e non da meno archivio il materiale fotografico che normalmente non riesco a fare per mancanza di tempo.

Per quale motivo ritieni, e se lo ritieni, che il mercato dell’editoria fotografica sia in crisi?

Credo che fondamentalmente sia morto un tipo di giornalismo tipico del ‘900, quello che ha formato professionalmente la mia generazione, viviamo in un momento storico dove c’è una grande inflazione di giovani autori, alcuni molto bravi altri si improvvisano fotoreporter. In realtà non è proprio così, peccano di presunzione, mancanza culturale, poca conoscenza del linguaggio fotografico e per finire sono disposti a svendere le proprie immagini pur di apparire su un magazine.

Come vedi il ruolo del foto giornalismo oggi alla luce della crisi del sistema editoriale?

Fino a quando i giornali hanno ricevuto i contributi sulla base delle copie stampate, i soldi circolavano facilmente e le fotografie venivano acquistate dalle redazioni, da quando i contributi hanno iniziato ad essere erogati sulla base delle copie vendute la musica è cambiata e le fotografie non vengono più acquistate se non dalle grandi agenzie con cui hanno contratti annuali. I giornali italiani sono ancora troppo tradizionalisti e continuano a fare dei doppioni delle notizie dal cartaceo al web. Dovrebbero sviluppare l’edizione web per differenziarla dalla versione cartacea dove invece si potrebbe raccontare storie più approfondite.

Secondo te è corretto dire che il foto giornalismo è morto, questa affermazione ha secondo te un fondamento di verità?

Come diceva Dondero, credo fondamentalmente “sia finito un modo di fare fotogiornalismo, ma non è finita la necessità di raccontare la vita” – per cui bisogna solo adattarsi all’attuale periodo in cui stiamo vivendo con la grande fortuna di poter utilizzare strumenti multimediali che la rendono ancora più interessante.

Ammesso che esista, quale è per te l’etica del foto giornalismo?

Intanto le notizie si cercano, non si vanno a costruire e di conseguenza le fotografie non si falsificano, come purtroppo avviene ultimamente. Alla luce del primo emendamento, bisogna raccontare le storie nei particolari, andare a scavare nelle pieghe della vita e non fermarci superficialmente, senza essere di parte ma soprattutto oltre al come, quando e dove… bisogna sempre approfondire il “perché”. Sicuramente la fotografia è lo strumento più facile per essere strumentalizzato ad uso e consumo di un messaggio di cattiva informazione, per cui a volte preferisco non sempre pubblicare tutti i miei scatti ma conservarli eventualmente per una mostra o un libro dove posso controllare che non siano soggette a manipolazione giornalistica.

Quale è il significato oggi di “fare informazione”? Il fenomeno del citizen journalist non è arrestabile e ha ridefinito nuove modalità del mestiere del giornalista e del foto giornalista. Quali saranno a tuo avviso le prossime evoluzioni? In che direzione andrà questo mestiere?

I citizen journalist sono nati per raccontare nell’immediatezza le storie soprattutto di piazza, ovviamente trattate in modo più superficiale e meno approfondito di quello che dovrebbero fare i professionisti della penna o dell’immagine. Erodoto è stato il primo grande giornalista della storia, per cui sicuramente cambieranno gli strumenti e il metodo di fare informazione ma ci sarà sempre bisogno di raccontare la vita o almeno lasciare traccia del nostro presente a future generazioni.

Quando vedi gallery sui quotidiani online di 170 foto cosa pensi?

Purtroppo manca la conoscenza all’interno dei giornali del linguaggio fotografico, sembra assurdo affermarlo, ma purtroppo il più delle volte la figura del photoeditor viene ricoperta da personale non qualificato, per cui il vero problema di chi ricopre questo incarico è quello di trovare nel momento dell’impaginazione la fotografia che funzioni su due o tre colonne anche se non trasmette il messaggio corretto. A volte succede che per non avere concorrenza i giornali cercano di utilizzare la stessa fotografia di agenzia già usata da altre testate, la pochezza di approfondimento è il grosso problema dei giornali italiani. Ovviamente per un fotoreporter vedere una gallery di 170 fotografie è la prova confutabile che bisognerebbe smettere di fare i corsi di aggiornamento professionale all’ordine dei giornalisti e incominciare ad imparare che cosa deve trasmettere una fotografia.

Quando ad un evento o su un fenomeno drammatico come le rotte migratorie attraverso i Balcani o ancora ai festival del cinema ti trovi con un numero di colleghi spropositato, cosa pensi?

Viviamo un periodo storico particolare dove tutti s’inventano una professione, supportati da pseudo agenzie o fantomatici siti online, per cui ci si trova a coprire avvenimenti soprattutto di news dove diventa difficile persino non fare rientrare nell’inquadratura gli stessi colleghi. Per natura sono un po’ refrattario a lavorare con troppi fotografi, per cui cerco sempre di isolarmi e trovare storie diverse o alternative, questo per non trovarmi ad avere la stessa identica immagine di decine di altri fotografi.

Paolo Siccardi, giornalista e photoreporter free-lance, è autore di diversi libri e mostre fotografiche. Dal 2000 collabora con il settore Esteri del settimanale Famiglia Cristiana. Inizia il percorso professionale negli Anni 80, alla fine degli “Anni di Piombo”, documentando a Torino i primi processi per terrorismo e le lotte operaie. Tra i suoi lavori più significativi quello sul conflitto in Afghanistan, dall’occupazione sovietica nel 1986 fino alla missione ISAF nel 2009.

Nel 1987 segue la rivoluzione Sandinista contro i guerriglieri Contras. È in Giordania il 17 gennaio, giorno in cui scoppia la Prima Guerra del Golfo. Per dieci anni documenta i conflitti nell’ex-Jugoslavia e i cambiamenti geo-politici nell’area balcanica. È poi la volta del Medio Oriente, la Siria, West Bank e l’Alto Golan al confine con Israele. In Africa realizza alcuni servizi sui conflitti e le emergenze umanitarie in Senegal, Costa d’Avorio, Benin, Togo e Sud Sudan.

Nel 2012 è in Siria durante l’assedio di Aleppo. Due anni dopo ha iniziato a documentare l’esodo delle popolazioni in fuga verso l’Europa. Dal 2015 segue il conflitto ucraino del Donbass.

I suoi reportage, prevalentemente a carattere sociale, sono stati pubblicati dalle più importanti testate giornalistiche: il Venerdì di Repubblica, Time International, Der Spiegel, Geo Japan, The Guardian, Courrier International.