Un nuova rubrica dedicata ai fotogiornalisti per tutti gli appassionati di fotogiornalismo.
Ho deciso di lanciare una rubrica per conoscere il settore silenzioso e schivo del fotogiornalismo. Un modo per portare alla luce tanti fotoreporter bravi e attenti aprendo un’occasione di confronto e conoscenza.
In questa rubrica non si parla di rivolta e lotta di classe, non si parla neppure di una generazione in particolare, gli invisibili è uno spazio che Witness Journal apre ai fotogiornalisti di professione, quelli che tutti i giorni sono in strada, nelle sedi istituzionali, in quelle politiche ed economiche, nei campi di gioco o a seguire conflitti e crisi sociali, quelli che vanno a fare le conferenze stampa e che partecipano ai Viaggi Apostolici, quelli che al mattino sono a fotografare le buche e il pomeriggio sono a seguire un convegno di alto profilo economico.
La rubrica si ispira al celebre romanzo di Nanni Balestrini. Gli Invisibili, la storia di una generazione, quella che a metà degli anni ’70 fu protagonista di rivolte e di rivendicazioni e che fu sopraffatta dal carcere e dalla repressione.
Nella rubrica di WJ di invisibile ci sono solo i volti dei fotografi che quotidianamente lavorano per fornire al sistema informativo e mediatico contenuti, storie e immagini. Quelli che svolgono un lavoro giornalistico continuo e costante, raccontando storie e coprendo notizie che poi finiscono nel bene o nel male sui giornali. Sono quei giornalisti che non compaiono in tv e che non partecipano ai talk show. Spesso arrivano per primi sulla notizia e sono gli ultimi ad andarsene, perché il foto giornalismo spesso lavora sui dettagli, si arricchisce dei particolari e dell’accadimento inaspettato che solo l’occhio attento di un fotografo riesce a cogliere.
Eppure i nostri invisibili hanno delle loro idee, riflettono su questo mestiere, sulla strada che hanno imboccato, sulle sue prospettive future e sulla passione presente che li spinge ad andare avanti.
Abbiamo provato a raccontarli, a capire cosa pensano e come vivono la loro professione.
Seppure invisibili, sono tenaci, “stanno sul pezzo” ed è giusto quindi che se ne abbia conoscenza nel presente. Dietro ad ogni foto pubblicata su un giornale, su una rivista, su un web magazine c’è il nome di un fotogiornalista ed è bene non dimenticarla questa cosa.
A pensarci bene però questa sì, in germe potrebbe essere una battaglia di classe o almeno potrebbe diventarla. Una rivendicazione, che non è solo testimonianza ma è la consapevolezza di essere un segmento importante del processo informativo, di essere un ingranaggio attuale e non scaduto della produzione di contenuti e conoscenza e che proprio per questo non vuole incepparsi.
La rubrica ha una cadenza settimanale con un’intervista ad un fotoreporter ed è corredata da una breve biografia con una selezione di 10 foto dell’autore.
Apriamo con Roberto Monaldo fotogiornalista da più di venti anni, vive a Roma e si occupa prevalentemente di politica e attualità.
Quando hai scoperto la tua passione per la fotografia?
Ho scoperto la mia passione per la fotografia da adolescente: non avevo una idea chiara della professione, però la figura del fotoreporter, da allora, mi ha sempre affascinato. Pian piano ho cominciato a muovere i primi passi comprando la prima fotocamera e scattando foto ovunque e senza un genere preciso.
Quando è diventata un lavoro?
E’ diventata un lavoro intorno ai 25 anni quando, dopo aver fatto l’assistente per un fotografo di still-life dal quale ho imparato molto tecnicamente, ho iniziato a seguire spontaneamente alcuni eventi di attualità. A quel punto ho cominciato a bussare alle porte delle agenzie e gradualmente è partito il mio percorso con la gavetta e tutto quello che comporta in termini di impegno e sacrificio.
Lavori per qualche agenzia o sei un freelance?
Sono un freelance, ma lavoro in esclusiva da 16 anni per l’agenzia LaPresse.
Di cosa ti occupi nello specifico?
Prevalentemente mi occupo di politica in tutte le sue declinazioni, dai palazzi, alle piazze, fino alla televisione. Mi piace molto anche la cronaca nazionale ma non sempre riesco a seguirla. La politica, per farla bene, necessita di un impegno totale e costante, altrimenti si “bucano” le notizie.
In cosa consiste il tuo lavoro quotidiano ?
Sveglia presto la mattina, lettura dei giornali, ricerca e selezione di tutte le notizie del giorno da seguire, poi telefonate di coordinamento con i colleghi di Roma. Dopo inizia il lavoro sul campo, cioè vado nei luoghi dove ci sono i servizi da coprire, pur rimanendo costantemente aggiornato, perché le priorità possono cambiare più volte in una giornata.
Per quale motivo ritieni, e se lo ritieni, che il mercato dell’editoria fotografica sia in crisi? E come vedi il ruolo del fotogiornalismo oggi alla luce della crisi del sistema editoriale?
Il mercato dell’editoria è in affanno perché la grande crisi economica di questi anni si è associata alla già esistente difficoltà degli editori: calo drastico degli introiti pubblicitari e delle vendite dovuto anche al cambiamento epocale che è ancora in atto: il passaggio dalla carta al digitale. Tuttavia i grandi gruppi editoriali stanno pian piano prendendo le misure e, dopo anni di transizione, credo che dal web arriveranno anche interessanti opportunità.
Secondo te è corretto dire che il fotogiornalismo è morto, questa affermazione ha secondo te un fondamento di verità?
Ho sempre sostenuto, a differenza di molti, che questo mestiere non è in estinzione, ma sta semplicemente cambiando, anche per quanto detto prima. Meno soldi e meno persone impegnate nel lavoro, ma il ruolo del fotogiornalista rimane importante nella società contemporanea. E poi penso che i giornali on-line, in futuro, potranno sviluppare molte potenzialità.
Ammesso che esista, quale è per te l’etica del fotogiornalismo?
Bisognerebbe approfondire, ma se ho capito la domanda, direi che bisogna documentare e informare, ma sempre con il profondo rispetto della dignità umana. Dobbiamo accettare che ci sono cose che non si possono fotografare.
Quale è il significato oggi di “fare informazione”? Il fenomeno del citizen journalist non è arrestabile e ha ridefinito nuove modalità del mestiere del giornalista e del fotogiornalista. Quali saranno a tuo avviso le prossime evoluzioni? In che direzione andrà questo mestiere?
Oggi c’è una deriva dell’informazione: spesso i giornali on-line sono sempre più pieni di non notizie mescolate a pochi eventi degni di nota. Purtroppo la dipendenza dai clic sta creando dei mostri e anche i quotidiani più importanti sono diventati una massa informe di contenuti di basso profilo.
Dal mio punto di vista “fare informazione” significa chiarezza e sobrietà nel raccontare le notizie. Non essere protagonista ma invisibile osservatore degli eventi, raccontandoli per quello che sono, senza interpretazioni.
Il fenomeno del Citizen Journalism è una novità della nostra epoca con la quale, semplicemente, bisogna convivere. Forse, in qualche caso, ha tolto un poco di spazio ai professionisti, tuttavia penso che la quasi totalità degli eventi possono essere documentati solo da un bravo fotogiornalista: i conflitti, la cronaca, lo sport, la politica, lo spettacolo.
Non mi pare un grande ostacolo all’evoluzione della nostra professione. Può essere una integrazione, ma non può rimpiazzare il grande e spesso sottovalutato lavoro del fotoreporter che, per capacità tecnica e visione giornalistica, è insostituibile.
Quando vedi gallery sui quotidiani online di 170 foto cosa pensi?
Le gallery di 170 foto fanno parte della deriva qualitativa dell’informazione. Non hanno senso, nessuno vedrebbe mai una evento raccontato con 170 foto. È proprio il contrario di sintesi, chiarezza e qualità. Tuttavia la schiavitù al clic e la scarsa sensibilità per la fotografia che c’è, talvolta, nelle redazioni ci obbliga ad assistere a tutto questo: capita anche di veder pubblicate foto inappropriate, che poco hanno a che fare con l’evento di cui si scrive; e come se non bastasse, non di rado vediamo foto che sono sbagliate anche dal punto di vista tecnico.
Quando ad un evento o su un fenomeno drammatico come le rotte migratorie attraverso i Balcani o ancora ai festival del cinema ti trovi con un numero di colleghi spropositato, cosa pensi?
Penso che questo sia un mestiere privo di regolamentazioni, chiunque può svegliarsi la mattina e pensare di improvvisarsi fotoreporter. Non esiste confine tra hobby e professione, quindi se uno ha soldi da investire, può tranquillamente organizzare un qualsiasi reportage e trovarsi spalla a spalla con un professionista che lavora da 30 anni. Tra l’altro in Italia, in molti posti, non vengono nemmeno richieste tessere professionali, ci si accredita semplicemente con la carta di identità e questo crea il caos più totale. Intendiamoci: non sono contrario all’accesso alla professione, ci mancherebbe, ma servono delle regole per chi inizia e per chi pratica questo mestiere. Non si dovrebbe dare la possibilità ai dilettanti di accedere con così tanta facilità ai contesti istituzionali, ai festival oppure agli eventi di cronaca. Ci dovrebbero essere regole tali da consentire solo ai professionisti di operare in certi luoghi e di veicolare le immagini alla stampa. Ma chi può creare questo circolo virtuoso? Non ho una risposta, anche perché la nostra è una categoria frammentata e divisa, dove ognuno ha interessi e guadagni particolari.
Chi rinuncerebbe a qualcosa oggi per il beneficio di tutti domani?
Roberto Monaldo è nato a Roma, svolge la professione di fotoreporter dal 1996. Ha sempre seguito eventi di politica, attualità e cronaca nazionale. Dal 2002 lavora in esclusiva per l’agenzia LaPresse.