Di Davide Barbera / Foto di Valerio Bispuri
Nell’intervista che segue, Valerio Bispuri racconta il suo lavoro all’interno delle carceri che ha visitato in giro per il mondo. In Sud America dal 2004 ha visitato più di 70 carceri in tutti i Paesi del continente e ha visitato anche il carcere di Mendoza in Argentina per documentarne il degrado umano. Il suo lavoro è stato poi raccolto in un libro chiamato “Encerrados” edito da Contrasto nel 2015. La pubblicazione del lavoro, grazie anche al sostegno di Amnesty International, ha consentito la chiusura del Padiglione 5 del carcere di Mendoza. Altro lavoro degno di nota è stato “Paco” sul tema del consumo di droga da parte degli adolescenti di Buenos Aires. Sempre nella capitale argentina ha documentato la vita di Betania, una donna lesbica di 35 anni indagandone la sfera privata e più intima sollevando sottolineando la necessità di un cambio di passo della società argentina verso il matrimonio omosessuale. Infine, sempre in tema di carceri, Bispuri ha lavorato anche nelle carceri italiane di Perugia, Roma, Poggioreale, Milano, Cagliari, Avellino e Venezia.
Da “Encerrados” a “Prigionieri”. Conosciamo tutti la difficoltà di ingresso nei nostri istituti penitenziari. Raccontaci com’è andata.
“Prigionieri” è il terzo capitolo della trilogia sulla libertà perduta. Un tassello aggiunto quasi per caso, ma con una genesi precisa. Durante la presentazione di “Encerrados” a Napoli, nel carcere di Poggioreale, i detenuti mi proposero di lavorare insieme ad un nuovo progetto: mostrare le loro condizioni di vita. Inizialmente temevo di non riuscire ad ottenere tutti i permessi necessari, ma fu lo stesso direttore di allora, Antonio Fullone, a rassicurarmi. Seguendo il suo consiglio, inviai una richiesta al D.A.P. (Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria) dove specificavo come ero solito lavorare. Più o meno senza limiti, documentando da dentro, entrando nelle celle, nei bagni. Mi interessava capire chi fossero questi prigionieri. In fondo la detenzione non toglie soltanto la libertà fisica, ma anche quella interiore. Come vivono? Cosa sentono? Quali sono i loro sentimenti? La mia idea è sempre quella di raccontare l’uomo. Mi fu accordato pieno accesso agli ambienti del carcere, escluso il padiglione Avellino, dove sono reclusi gli affiliati alla camorra. Fino a quel momento ritenevo che il progetto potesse essere uno spin-off di “Encerrados”. L’esperienza di Poggioreale diede vita all’idea di visitare le altre tre case circondariali più grandi e forse più malridotte d’Italia: l’Ucciardone a Palermo, Regina Coeli a Roma e San Vittore a Milano. Tra l’altro, tutte hanno la caratteristica di essere all’interno del centro città, a differenza del solito. Queste tappe rappresentano il vero punto di partenza di un capitolo a parte. Da qui ho esteso la ricerca a realtà più recenti, come il carcere di Capanne a Perugia; a quella femminile, con la sessione delle donne a Rebibbia o la Giudecca a Venezia, con 89 detenute. O realtà più piccole, penso a Sant’Angelo dei Lombardi. E ancora più diverse, come quella di Isili in Sardegna, una colonia penale dove i detenuti possono lavorare all’esterno dell’istituto, in prossimità del perimetro. Un panorama – in tutto dieci istituti – di quelle che sono le carceri italiane. Questo mi è servito per confrontare i due mondi, il nostro e quello latino-americano. Differenze? Il carcere è sempre carcere, che sia in Svezia o a Timbuctù. La differenza sostanziale sta nel fatto che nelle carceri sudamericane c’è una maggiore unione tra i detenuti, sebbene questo venga compensato dal un lato violento altrettanto spiccato, che li spinge ad organizzare rivolte per il minimo pretesto. Nelle carceri italiane c’è meno violenza da questo punto di vista, ma più isolamento. Non a caso in Sud America il tasso di suicidi è bassissimo, al contrario di quanto riscontrato in Europa.
Così com’è difficile entrare nel sistema carcerario, è difficile anche conquistare la fiducia dell’animo umano. Parliamo di “Paco”.
Paco è una droga ottenuta dai residui della cocaina (miscelati a cherosene, colla, veleno per topi o polvere di vetro n.d.r.). Una droga terribile, figlia del default economico argentino del 2001, quando anche i narcotrafficanti dovettero adattarsi alla crisi. Così cominciarono a vendere gli scarti della lavorazione ad un prezzo irrisorio. Ancora oggi una dose di paco costa intorno ai 2 euro. Ha un effetto 20 volte più forte rispetto a quello della cocaina, una durata di pochi secondi ma provoca un’assuefazione immediata. L’idea di questo secondo capitolo della trilogia è nata quando abitavo a Buenos Aires. Volevo capire cos’è la droga, in quanto dipendenza e quindi privazione di libertà. Un giornalista del quotidiano “La Nación” mi diede il contatto di una volontaria che lavorava a Lomas de Zamora, periferia estrema di Buenos Aires. Con una piccola Ong garantiva i servizi minimi ai ragazzi del posto, sostenendoli nel percorso di disintossicazione. Abbiamo iniziato a conoscerci, a fidarci l’uno dell’altro. Questo è fondamentale. La stessa fiducia che permette alla fotografia di andare in profondità e di non fermarsi allo scatto. È facile immortalare la scena di due bambini malridotti che fumano paco per strada, più difficile è cercare di comprendere cosa ci sia dietro. Qual è l’ambiente dove sono nati? Quali sono le strade? Quali sono gli odori? Da qui è iniziato il mio viaggio nei luoghi del paco. Ho scoperto, per esempio, che in queste villas – come si dice in Argentina – la figura del padre è assente. Spesso sono in galera o peggio, morti. Le madri fanno quel che possono, ma non è abbastanza da impedire che i figli cadano vittima della droga. L’aspetto più importante del lavoro di un fotoreporter è capire l’essenza della storia, intravedere dietro la superficie. A questo proposito ricordo sempre con piacere il complimento che mi fece il photoeditor di “Le Figaro” a Perpignan, nel 2016, in occasione della mostra su “Paco”. Mi disse che il mio lavoro gli sembrava uno dei più completi tra quelli che aveva visto negli ultimi tempi. Credo sia molto importante. Non mi è mai interessato lavorare sulle news, sul momento. Preferisco l’analisi e l’approfondimento.
In un format di Sky, “Fotografi”, ti vediamo all’opera. Con un 24mm è inevitabile che la distanza tra te e i tuoi soggetti sia minima. Nessuno reagisce a questa invasione di campo. Sembra che drogarsi sia un rito così diffuso da essere considerato ordinario.
La mia ottica è sempre stata quasi sempre il 24mm, tranne un breve periodo iniziale in cui ho utilizzato anche il 28mm. Ho bisogno di “sentire” i soggetti, di entrare dentro la situazione. Non ho problemi in questo, perché i miei lavori sono tutti a lungo termine. Ciò mi permette di creare un’intimità con le persone, che a loro volta quasi si dimenticano della mia presenza. È la costruzione goccia a goccia di un rapporto, goccia a goccia entrare dentro la storia. Capire cosa si sta facendo e di conseguenza farlo capire anche agli altri. Un altro aspetto importante di questo mestiere è la comunicazione con i soggetti, che sono artefici del progetto almeno quanto il fotografo stesso. Sono loro la storia, a te spetta il compito di ascoltare, capire ed essere un veicolo di condivisione verso altri. Un lavoro corale. Anche per questo i ragazzi si sentivano liberi di fumare il paco, oltre che per la quotidianità che assume la dimensione della droga.
Continuando a parlare in termini di fiducia: i tuoi soggetti si fidano al punto da mostrarti il loro lato più intimo. In un certo modo anche tu ti sei fidato di loro quando, bendato, ti hanno condotto dentro una “cucina della droga”.
Non potevo ritenere concluso il lavoro sul paco senza fotografare il cuore pulsante della lavorazione della droga. È stato complicato, sono stati necessari due anni, sempre grazie alla collaborazione dell’Ong e alcuni contatti del posto. Era una domenica di maggio. Quel giorno si giocava il match tra Boca Juniors e River Plate, una partita molto attesa a Buenos Aires. Approfittammo della distrazione generale per accedere di nascosto dai narcotrafficanti. Bendato, sia per la loro che per la mia incolumità, mi accompagnarono fino al luogo dov’erano situate le cucine (se ne stimano circa 5000 nella sola capitale). Dopo una trentina di minuti in auto, percorrendo vie che non so, arrivammo a destinazione: praticamente una baracca dove viveva una famiglia, con un garage sotto, arieggiato grazie ad una minuscola finestra che dava sulla strada. I gas prodotti dalla lavorazione del paco sono irrespirabili. Dopo qualche ora ero in apnea, sia fisica che psicologica – non sapevo né dove mi trovassi né se e quando i narcotrafficanti potessero ritornare. Non conoscevo le due persone che stavano in cucina e loro non conoscevano me, ma si fidavano di chi li aveva avvisati che sarebbe arrivato un fotografo. Erano consapevoli di partecipare al mio progetto. Sono rimasto lì circa 6 ore, fino al tardo pomeriggio. Dopodiché, nuovamente bendato, una macchina mi ha riaccompagnato a Buenos Aires. Le cucine fecero quadrare il cerchio, sentii che il lavoro poteva definirsi completo. Successivamente ho aggiunto altre foto, una piccola postilla su chi prova ad uscire dalla dipendenza causata dal paco, purtroppo senza quasi mai riuscirci.
Ritorniamo sul discorso delle carceri. Il giornalista Michele Smargiassi ci ricorda come il titolo del tuo ultimo libro sia un termine affine alla guerra. Denota un giudizio di fatto e insieme di valore: prigioniero, in quanto nemico. Dietro le sbarre, invece, l’uguaglianza della condizione carceraria permette di concepire nuovamente il detenuto in quanto persona.
Nonostante l’accezione negativa, ho scelto questo titolo perché rendeva al meglio il concetto di privazione estrema di libertà. Generalizzando, la popolazione detenuta può essere divisa in due insiemi: una parte è composta da persone con condizioni di vita difficili che vivono il carcere come una parentesi inevitabile tra un piccolo reato e l’altro; la seconda parte, numericamente più importante di quanto pensassi, è costituita da gente – che come noi ha studiato, ha una vita equilibrata, etc… – che finisce dietro le sbarre per un raptus di cui non ricorda niente. All’inizio del mio progetto a Poggioreale, conobbi un ragazzo (musicista ed universitario) che una notte, di ritorno a casa con la propria ragazza, aveva fatto inversione in autostrada, finendo per uccidere la sua ragazza ed un operaio che viaggiava in direzione opposta. Non ricordava nulla. L’approccio alla vita in carcere è simile un po’ ovunque: la prima fase è quella dell’incredulità, per poi passare alla rassegnazione e nel peggiore dei casi alla depressione. Una delle cose che ho amato fare in carcere era pranzare con i detenuti. Un momento in cui ero in cella con loro, senza scattare, solo per condividere opinioni, lo stesso cibo, per confrontarsi come avremmo potuto fare anche in luogo diverso da quello. Nascono anche rapporti di vera amicizia, c’era chi si confidava con me. Nelle carceri italiane le problematiche sono importanti. In pochi lavorano, in pochi studiano e del resto anche chi torna in libertà non se la passa meglio. Non è previsto nessun aiuto per chi esce dal carcere. Dopo anni trascorsi in cella, il reinserimento nel tessuto sociale è a dir poco complesso.
Diversi anni fa mi hai confessato di non riuscire a fotografare in contesti culturali distanti dal nostro. Non a caso, con l’Argentina è stato amore a prima vista.
Ritengo che ogni fotografo debba avere un luogo in cui riconoscersi. Personalmente sento l’America latina più nelle mie corde rispetto ad altre parti del mondo. Culture come quelle orientali mi hanno sempre affascinato da un lato, ma allontanato dall’altro. Il fatto di non poter comprendere del tutto certi meccanismi, anche dopo tempo, mi allontana fotograficamente. Si tratterebbe di una fotografia quasi puramente estetica. Da due anni ho iniziato un lavoro a cui tengo molto, sulla malattia mentale in Africa. L’Africa, come l’Italia di inizio ‘900, sembra adesso prendere atto dell’esistenza del disagio mentale. Di conseguenza secondo me è importante capire chi è oggi il malato mentale in Africa. Sono già stato in Zambia, in Kenya e non appena sarà possibile vorrei andare in Benin. L’idea è quella di farlo diventare il quarto capitolo della serie sulla libertà perduta, che a quel punto sarà una quadrilogia! Infine sto portando avanti altri due progetti che sono quasi giunti al termine. Il primo sulla sordità, focalizzandomi sul rumore – e non sul silenzio – come tratto distintivo delle persone affette da questa menomazione. Un rumore che ne caratterizza le interazioni con gli altri, ma anche un rumore interiore. Il secondo sulla tratta delle donne in Argentina, le nuove desaparecidas della democrazia. Credo fortissimamente in una fotografia che racconti al di là dell’immagine. L’obiettivo del fotoreporter è quello di riuscire a bilanciare le nostre emozioni con la realtà. Bilanciare quello che sentiamo con quello che vediamo. E questo non si finisce mai di imparare.