Exodos

Una mostra collettiva che racconta le rotte dei migranti

Da poco più di una settimana è stata inaugurata, presso la sala mostre della Regione Piemonte, la mostra Exodos. Una collettiva di dieci fotoreporter e due video giornalisti che racconta il fenomeno migratorio attraverso angolature, luoghi e sensibilità diverse.

La mostra ha il grande pregio di essere il frutto di un lavoro di condivisione e cooperazione tra colleghi che quotidianamente lavorano per agenzie e contesti differenti ma che in Exodos hanno trovato il loro comune denominatore: il racconto delle migrazioni. Parlare di migrazione oggi vuol dire toccare il nervo scoperto e dolorante che affligge popolazioni e cittadini di paesi diversi, vuol dire parlare della crisi delle nostre democrazie e dei nostri modelli di integrazione. Le nostre società si sono riscoperte intolleranti e talvolta razziste, impreparate culturalmente ad affrontare e gestire quello che senza ombra di dubbio rappresenta il problema del nostro secolo. Il fotogiornalismo e il racconto giornalistico hanno un ruolo e una funzione importante in questo contesto: quello di raccontare e denunciare ciò che accade; ma hanno anche un altro scopo importante quello di informare sui fatti, sulle persone restituendoci un pezzo di realtà. La mostra sarà visitabile fino al 24 febbraio tutti i giorni dalle 10 alle 18. Ho chiesto a ciascuno di questi colleghi cosa volesse dire per loro raccontare e documentare il fenomeno migratorio attraverso le immagini.

Ecco come hanno risposto.

Marco Alpozzi, fotogiornalista

Collabora con l’agenzia LaPresse.

Raccontare e documentare il fenomeno migratorio per me vuol dire continuare un percorso iniziato nel 2011 in Tunisia e a Lampedusa. Il fenomeno da allora ha subito notevoli cambiamenti. Poter continuare a testimoniare questo fenomeno vuol dire raccontare la più grande crisi umanitaria del secolo che coinvolge mondi e culture diverse spesso in conflitto, non solo culturale, tra di loro. Testimoniare attraverso le immagini credo e spero possa aiutare a far comprendere cosa vive una parte di umanità, quella relegata a una sintetica rappresentazione sui giornali o soggetta a strumentalizzazioni di propaganda politica. Attraverso le mie fotografie cerco di mostrare i volti, le situazioni e le condizioni di vita che vivono i migranti. Non credo che questo cambierà l’ordine delle cose, ma forse potrà sensibilizzare le persone verso un’umanità che sembra sempre più venire meno.

Stefano Bertolino, video giornalista

Collabora con Fanpage.it

Il fango di Idomeni, le coperte sugli scogli di Ventimiglia, il vento forte che soffia tra le tende a Calais, la neve di Belgrado, le montagne di salvagente arancioni che colorano le spiagge di Lesbos. Posti diversi, storie differenti, la stessa disperata ricerca di una vita sicura e migliore. Quando l’ambiente che ci circonda non ci garantisce un’adeguata sopravvivenza ci spostiamo, è quell’istinto alla vita insito nel DNA di ciascuno di noi: raccontare le migrazioni significa raccontare la natura dell’uomo. Da dove vieni? Da cosa scappi? Che sia guerra o fame il racconto parte sempre da una separazione, quella dal proprio paese, dalle proprie radici. Come sei arrivato qui? Dove vuoi andare? Il viaggio, l’esperienza formativa che ognuno di noi sogna e progetta, è un percorso tra montagne, mari e frontiere fatto con la morte del compagno di viaggio. I più fortunati arrivano, ma poi che vita li attende? Sfruttamento, accoglienza, inclusione, odio, integrazione, il ricordo del pericolo scampato, la certezza di aver lasciato qualcosa o qualcuno di caro a casa. Raccontando le migrazioni capisci che a vivere in un lato del mondo piuttosto che in un altro non hai nessun merito, ma solo tanta fortuna. Guardando nel fango di Idomeni o tra gli scogli dei Balzi Rossi, respirando i lacrimogeni di Calais o i fumi dei roghi di Belgrado, camminando tra i gommoni abbandonati sulle spiagge greche, ma soprattutto guardando negli occhi queste persone, capisci che la fortuna come arriva se ne potrebbe andare. Un giorno non troppo lontano.

Cosimo Caridi, video giornalista

Collabora con Nemo RAI2, Il Fatto Quotidiano, Internazionale, Al Jazeera

Le immagini rimangono nella memoria più di ogni altra informazione. A cavallo tra l’ottocento e il novecento sono emigrati oltre 30 milioni di italiani. Nessuno ricorda questo numero, ma tutti hanno stampato in mente almeno uno scatto dei traghetti strapieni in arrivo a Ellis Island. L’accesso al sogno americano era su quell’isolotto artificiale, costruito con i detriti provenienti dagli scavi della metropolitana di New York. Questo poco importa, quel che conta, e che racconta, sono le rughe e le valigie di cartone immortalate nelle fotografie in bianco e nero dell’epoca. Ho raccontato il Medio Oriente con carta e penna, poi con l’arrivo delle primavere arabe ho sentito l’impulso di trasformare in immagini il mio vivere quel cambiamento. Ma sono state le guerre a Gaza a legare indissolubilmente il mio lavoro alla videocamera. Non riuscivo, seppur scrivessi tutti i giorni, a chiudere urla e lacrime nelle colonne di un quotidiano. Sono tornato in questi giorni da Belgrado e sentendo il gelo in cui vivono i profughi, bloccati nel cuore dei Balcani, mi sono interrogato su come poter far provare quel freddo a chi legge o vede i miei reportage. Posso descrivere il fumo dei fuochi, alimentati con la plastica, che utilizzano per scaldarsi. Posso filmare le docce fatte sotto la neve. Ma non basta. L’unico modo per portarvi lì con loro, con me, è farvi vedere i loro visi bruni per la fuliggine.

Mauro Donato, fotogiornalista

Le foto e le immagini che documentano la crisi dei migranti servono a raccontare e a far capire come sta cambiando il mondo: quali sono i motivi per cui queste persone scappano, quelli per cui abbandonando i propri cari, mettendo a rischio quanto di più importante hanno al mondo, i loro figli. È quindi necessario raccontare questo fenomeno dal punto di vista umano perché è un dovere nei confronti di chi verrà dopo di noi. Integrazione e accoglienza potrebbero essere le condizioni per rendere migliore il nostro domani e quello dei nostri figli.

Max (Massimo) Ferrero, fotogiornalista

Significa essere testimone di un evento epocale che condizionerà le nostre vite nel prossimo mezzo secolo. Ma non è importante discutere e spiegare i motivi per cui documento questo evento. Importante è definire “come” un reportage può e dovrebbe essere raccontato. Nelle mie foto ho sempre cercato di uscire dalla notizia immediata e fugace per cercare immagini evocative, icone di un racconto che ha radici diverse ma uno stesso obiettivo: la speranza che ha ogni essere di trovare un futuro migliore. Il flusso di genti è un fluido umano che si sposta con il motore della “differenza di potenziale della felicità”. Mi sono sempre detto che al loro posto avrei fatto lo stesso, accompagnarli e fotografarli è stato condividere con loro una speranza e un dramma. Nelle mie foto non ricerco l’istantanea sensazionale a tutti i costi. Ho deciso di essere freelance a tutto tondo, seguendo il mio istinto e la ricerca estetica necessaria per la creazione di suggestioni visuali, senza imposizioni e senza obblighi verso agenzie o giornali. Non mi sento più un fotogiornalista ma un narratore di avvenimenti reali.

Mirko Isaia, fotogiornalista

Viaggiare, macchina fotografica alla mano, mi incentiva a concentrarmi su ciò che mi circonda con occhio nuovo. Mi sono prefisso di amalgamare etica ed estetica: il mio obiettivo principale è contestualizzare i miei scatti nella quotidianità dei soggetti. Affrontare la “questione migranti” mi ha permesso un contatto diretto con questa realtà, mi ha permesso di conoscere le asperità di chi viaggia alla ricerca di un futuro migliore, per sé stesso, per la propria famiglia, e in cuor suo anche per il paese che si lascia alle spalle. Nel 2016 più di 5.000 migranti hanno perso la vita cercando di attraversare il Mediterraneo, abbiamo visto l’evoluzione e la caduta dei campi di Idomeni e di Calais, e, in questi giorni, le immagini provenienti dalla Serbia sottolineano quanto distanti siamo da qualsivoglia sentimento di accoglienza. Durante la mia esperienza nella “giungla” di Calais, invece, mi sono sentito accolto. Spero che le mie foto possano far riflettere su questo sentimento, l’accoglienza, che l’Europa pare aver dimenticato.

Giulio Lapone, fotogiornalista

Per me vuole dire certamente dare voce a chi voce non ne ha, rendere noto a più persone possibili che è un disagio reale ed è qui accanto a noi. E’ un fatto epocale che ha contorni molto simili alle migrazioni bibliche e belliche del secolo scorso.

Matteo Montaldo, fotogiornalista

Ritratti di migranti, in piedi su sfondo neutro, decontestualizzati. Uomini e donne che viaggiano da soli o famiglie con bambini. Ritratti che raccontano storie. Sguardi, gesti. L’obiettivo è chiedere un momento di riflessione nel mezzo del viaggio. Un’intervista visiva. Prima e dopo c’è tempesta, di fronte alla macchina c’è una pausa di attesa. Lasciare che siano le persone, in posa, ad apparire. Poi le cose sul campo si complicano. Scrive Richard Avedon: “Questo scambio [il rapporto fotografo e soggetto] implica manipolazioni, sottomissioni. […] Si arriva all’arroganza e si agisce in base a ciò che raramente rimarrebbe impunito nella vita ordinaria”. Le condizioni diventano più gravose se si tratta di migranti, uomini, donne e bambini che hanno vissuto violenza fisica e mentale. Evidenziata dai colleghi, sorge la domanda: vogliamo davvero costringere queste persone a spostarsi, raggiungere un luogo adatto alla fotografia e a mettersi in posa? Nella nostra vita ordinaria uno sconosciuto, fotografo, che agisce in tal modo dà luogo ad una serie di comportamenti nel soggetto che variano dalla diffidenza al velato narcisismo. Sulla rotta balcanica è diverso: significa chiedere a una persona col passeggino di muoversi su strade non asfaltate, spostare persone stravolte che riescono a malapena a relazionarsi. Alla fine ho scelto di scattare, in tutte le situazioni, tranne quando mi è stato esplicitamente proibito, affinché gli sguardi e le espressioni possano raggiungere e incontrare chi le guarderà da questa parte di mondo. Perché ritrarre è documentare. Dopo aver sviluppato le pellicole ciò che mi colpisce maggiormente sono i bambini: dai loro volti emerge la capacità di vivere questo tragico momento quasi fosse un’avventura, vedere un futuro al di là dell’immediato e traumatizzante presente. Ma la domanda resta: è giusto forzare delle persone in condizioni difficili, ai limiti dell’emergenza, alla documentazione e soprattutto a esigenze estetiche?

Giorgio Perottino, fotogiornalista

Collabora con Reuters

Ci troviamo di fronte a un fenomeno migratorio imponente, senza precedenti, a pochi chilometri da casa, appena oltre le nostre coste. Non distante dalla casa Europa il panorama politico e sociale trasuda guerre e conflitti che generano sofferenze e morte. La nostra comunità diventa quindi un possibile approdo sicuro per moltitudini di persone costrette a fuggire, spesso non per scelta ma per necessità. Documentare tale fenomeno significa innanzitutto ridimensionare tragedie singole e familiari ad un livello umano, scavalcando pregiudizi e sensazionalismi populisti che associano migranti a pericolosi clandestini e potenziali terroristi. La generalizzazione e l’ignoranza creano categorie spesso inutilmente rigide e fittizie, ma che, facendo leva su coscienze impaurite, restituiscono odio e consenso politico strumentalizzato. Compito del reporter non è solo testimoniare, ma anche riposizionare la condizione di questi uomini, donne e famiglie da migranti a persone. Non si può certo generalizzare, cadendo in buonismi eccessivi o in cieche paure. Cercare un equilibrio, guardare con i propri occhi, sentire le loro voci, ascoltare le loro storie aiuta a delineare i confini reali delle condizioni di vita di popolazioni intere. Cercare di stimolare empatia verso questa umanità diventa un tentativo per offrire spunti di riflessione contro fenomeni di populismo e razzismo che nuovamente si stanno espandendo in Europa.

Andreja Restek, fotogiornalista

Collabora con Apr news

Sono croata d’origine e torinese d’adozione. Documentare il fenomeno migratorio per me è molto importante perché è modo per raccontare parte della mia storia. Pensiamo, sbagliando, che le guerre capitino sempre altrove e che i profughi e i rifugiati siano altri, invece non è così. Può succedere che un giorno ti svegli e vedi i carri armati sotto la finestra di casa tua e ti rendi conto che sta succedendo qualcosa di terribile. Può succedere di doverti trasferire in un altro Paese e aspettare in lunghe code, al freddo, il permesso di soggiorno. Fotografare e raccontare le storie dei rifugiati e degli immigrati risvegliano ricordi dolorosi, come gli sputi ricevuti in faccia molti anni fa solo per aver detto che arrivavo dai Balcani. Si parte per vari motivi, ma può succedere che davanti e dietro di te trovi le frontiere blindate. Lo stato da dove sei partito solo poco tempo dopo non esiste più. Tutto questo succede velocemente e ti rendi conto che nelle mani hai solo un pezzo di carta senza alcun valore. In quel momento ti chiedi: e adesso chi sono? Se sei fortunato, come sono stata io, hai qualcuno che ti aiuta ad uscire dal caos. Credo di capire, almeno in parte, i sentimenti che provano le persone costrette a fuggire. È questo uno dei motivi che mi spinge a raccontare le loro storie. Fotografando e raccontando mi piacerebbe riuscire a far riflettere sull’importanza di beni come la libertà, la democrazia e la pace. Queste sono ricchezze che spesso diamo per scontate ma che dovrebbero essere protette perché improvvisamente può capitare di perderle. Raccontare tutto questo non è facile ma cerco di farlo con onestà e con rispetto perché lo sento molto vicino. E poi, come si può parlare di migrazione se non si parla, non si cammina e non si vive con chi fugge?

Paolo Siccardi, fotogiornalista

Collabora con il settimanale Famiglia Cristiana

Ci accorgiamo dei profughi quando diventano un “fenomeno migratorio”, quando finalmente le notizie passano attraversi i canali televisivi e i magazine pubblicano le prime pagine con le fotografie. Allora ci colpiscono quelle immagini della gente in coda sotto la neve per un pasto caldo oppure quei barconi capovolti con i morti che galleggiano nel mediterraneo e siamo pronti a giudicare, criticare ma come disse un grande giornalista, Robert Fisk: “chi, cosa, come, quando – ma perché non ci domandiamo mai il perché”. Forse è proprio questo il vero problema, non vogliamo conoscere le cause scatenanti di tale fenomeno che ha portato questa parte della popolazione a dover affrontare una scelta così coraggiosa per sopravvivere. Nei miei anni di professione ho seguito svariati flussi migratori, dai profughi in fuga dall’Iraq di Saddam Hussein durante la Guerra del Golfo nel ’91 a quelli in Kosovo nel ’99, in Africa nel South Sudan o quelli in Afganistan e in Syria e ancora lo scorso ottobre, quei profughi che non fanno ancora notizia in Ukraine ma che ogni giorno attraversano la “buffer zone” per fuggire dalla guerra. Tante facce sono rimaste nei miei ricordi, ma tutte con la grande dignità di chi, attraverso lo sguardo, racconta la propria sofferenza. Facendo questo lavoro, credo di essere un testimone privilegiato perché posso respirare per pochi secondi, la stessa aria e rubare quell’intimità che non mi appartiene. Mi consente di poter scavare fino alla radice delle storie per raccontare una realtà diversa, a volte sconosciuta, e mantenere viva una memoria fotografica che si sarebbe persa con le sole parole.

Stefano Stranges, fotogiornalista

La mia testimonianza riguardo alle recenti crisi migratorie iniziò principalmente nel luglio 2013, durante la fase più acuta del fenomeno. La porta della salvezza, arrivando dal nord ovest della Siria, era Kilis, la prima città turca oltre la barriera, una salvezza temporanea. La sua anticamera era il campo di Bab Al Salam, ancora nel territorio siriano. I bombardamenti arrivavano però anche dall’alto, e sicuramente il campo non poteva proteggere le migliaia di persone, famiglie intere, rifugiate sotto le tende. Ho vissuto quella prima fase, l’inizio di una lunga rotta verso un posto sicuro; ho vissuto insieme a una famiglia che abbandonava tutti i sogni nella casa di Aleppo, trovando 4 mura in affitto a Kilis. Ho vissuto i loro sogni infranti, ascoltato i discorsi della patria che non esisteva più. Nel racconto per immagini la ricerca è stata questa: estrapolare dai volti di queste persone i discorsi che sentivo, le storie che sfioravo. Loro cercavano nella mia presenza la possibilità di raccontare al mondo la storia di una terra ormai sgretolata. Scattare quelle foto è stato come mostrare il loro primo passo verso una nuova vita. Anche se il cammino è molto più difficile di quanto si possa immaginare, la speranza, lontana dalle guerre e dagli orrori, rappresenta un importante stimolo ad andare avanti.