COP26: tra consapevolezza e speranza

Un approfondimento della nostra Federica Mirto sugli accordi presi alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2021, conosciuta anche come COP26, che si è svolta a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre 2021, sotto la presidenza del Regno Unito

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Testo e fotografie di Federica Mirto

COP26: TRA CONSAPEVOLEZZA E SPERANZA 

El futuro no se negocia, el futuro se defiende.

Collettivo Futuros Indígenas

Gli accordi presi alla Cop26 hanno lasciato l’amaro in bocca: a Glasgow, i rinvii hanno dominato sulle sfide e sugli obiettivi per salvaguardare il pianeta. Troppe le aspettative e poca l’attenzione reale sulle radici strutturali della crisi climatica.  Il dramma della odierna situazione del clima è legato a un atteggiamento colonialista che si basa sullo sfruttamento di terre e risorse appartenenti ai popoli considerati inferiori. 

Durante le due settimane della Cop26, i rappresentanti delle comunità indigene, provenienti da diversi paesi, sono stati presenti e attivi. Hannoraccontato i loro popoli, descritto la spiritualità che li lega ai loro territori, testimoniato le minacce che subiscono dai governi e la paura di non avere più una terra da difendere. Tutt’oggi, tra le voci più forti che riecheggiano come un grido o un avvertimento, troviamo soprattutto quelle delle donne indigene di tutte l’età, arrivate anche dal continente latino-americano come il collettivo Futuros Indígenas dal Messico.  Dopo aver trascorso mesi a raccogliere i fondi necessari per partecipare alla Cop26, speravano di prendere parte attiva ai negoziati. 

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In ventisei anni dalla prima Cop svoltasi a Berlino nel 1995, le politiche internazionali per il clima hanno ignorato e trascurato i diritti territoriali e culturali dei popoli indigeni, nonostante questi siano stati riconosciuti formalmente nel 2001 come uno dei principali gruppi elettori (assieme a aziende, organizzazioni no profit, collettivi di donne e giovani e sindacati) permettendo di partecipare ai negoziati. 

Solo nel 2015, gli accordi di Parigi ne hanno legalmente concesso il ruolo cruciale, riconoscendone la loro profonda conoscenza, tradizionale ma innovativa rispetto all’approccio occidentale, nell’affrontare la crisi climatica. La decisione aveva lo scopo di garantire che le comunità locali e indigene potessero partecipare e influenzare le politiche climatiche internazionali in modo più significativo ed equo. Purtroppo, anche dopo Glasgow, quasi nulla è cambiato sia all’interno dei negoziati delle Nazioni Unite sia per l’impatto della crisi climatica sui loro territori. 

Nel 2020 sono stati uccisi 227 attivisti ambientali, come riporta l’ONG inglese Global Witness nel suo rapporto annuale – la media è di più quattro persone a settimana e più di un terzo degli omicidi include persone indigene, nonostante rappresentino solo il 5% della popolazione mondiale. L’ America latina, in particolare la Colombia, rimane la regione dove si registra il più alto numero di omicidi e viene classificata da Global Witness come la più violenta nei confronti degli attivisti ambientali. 

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A Glasgow, l’attivista Puyr També dall’ Amazzonia brasiliana ci ha ricordato che non si tratta di difendere solo il proprio povo (popolo) ma tutta la “Madre Terra”. La foresta amazzonica contiene il 10% della biodiversità del paese e gioca un ruolo fondamentale nella mitigazione del cambiamento climatico assorbendo l’anidride carbonica – anche se questa funzione sta venendo a mancare a causa del continuo abuso di episodi di deforestazione. Tra agosto 2020 e luglio di quest’anno 10,476 kmq, corrispondenti ad una area grande 7 volte la città di Londra, sono stati spazzati via. Per la prima volta, parte della foresta emette più CO2 di quella che assorbe e gli scienziati avvertono che il 40% della foresta amazzonica potrebbe trasformarsi da foresta tropicale a savana, con preoccupanti effetti sul clima.

Parole di fiducia sono state spese da Amalia Vergas, attivista argentina del popolo mapuche: “Il processo per il cambiamento sarà lento ma sta iniziando con l’azione, molto più consapevole e unita da parte delle donne indigene”.

La volontà di agire e la consapevolezza della gravità della crisi climatica si è manifestata il 6 novembre in occasione del Global day of action for Climate justice che ha portato diecimila persone a marciare sotto la pioggia per le strade di Glasgow. Tante le bandiere e i cartelli delle diverse minoranze etniche, dei sindacati, degli indipendentisti scozzesi e di tutti coloro che hanno voluto rivendicare il loro spazio o lanciare un messaggio ai potenti, i quali oltre alle grandi parole, nelle piazze non scendono mai. Ritornare a ignorare la complessità del cambiamento climatico non sarà più un’opzione come avverte il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres : “fare pace con la natura è il compito da definire del 21 esimo secolo”.

Se la Cop26 verrà ricordata per l’ennesimo evento di tanti buoni propositi e pochi fatti, un riconoscimento virtuoso va dato alla città scozzese di Glasgow, nominata Global Green City nel 2020.  Simbolo di una città rinata sulle ceneri della rivoluzione industriale che sta investendo tantissimo in progetti sostenibili.