di Giulio Di Meo
I lavori saranno esposti in occasione della mostra collettiva prevista per febbraio 2018 a Bologna, presso gli spazi di QR Photogallery, in concomitanza con gli appuntamenti di Arte Fiera 2018.
Riportiamo i nomi degli autori e delle relative opere (in ordine alfabetico) accompagnati dalla breve sintesi di ogni progetto, al fine di condividere le scelte messe in atto dai giurati e renderne trasparente il processo decisionale:
- Mattia Barbata – The Trap: Catching the Red Tuna
- Sulejman Bijedić – Odavle Samo u harem
- Monica Bonacina – Anitya
- Maurizio Di Pietro – Turkana’s Resilience
- Vincenzo Montefinese – Stuck in Serbia
Ai cinque vincitori si aggiungono tre menzioni speciali. Questi lavori, sebbene non esposti in mostra, spiccano ugualmente per particolare interesse e profondità:
- Giulia Frigieri – Surfing Iran
- Daniele Mele – Una storia di amore e di perdita
- Liliana Ranalletta – Il mondo di Dainaly
L’intera selezione finale si presenta fortemente eterogenea, tanto tematicamente quanto da un punto di vista stilistico. Riteniamo che il corpus di lavori scelti coniughi e sintetizzi diversi aspetti chiave dello strumento reportagistico quali l’aderenza all’attualità, l’interesse nei confronti di fenomeni di costume e pratiche di comunità, un tipo di narrazione introspettiva personale, e l’attenzione rivolta ad un’alterità tanto culturale quanto psicologica.
Il lavoro di Barbata (“The Trap: Catching the Red Tuna”) si nutre di forti contrasti. Davanti a spiagge bianche e sul palcoscenico di un mare placido, ha luogo la mattanza, antichissima tecnica di pesca del tonno ormai praticata quasi unicamente tra l’Isola di San Pietro e le coste di Portoscuso, in Sardegna. Il bianco e nero si fa complice nel rievocare gesti che affondano le loro radici nella notte dei tempi, tramandati di Rais in Rais, ovvero il tonnaroto che coordina tutte le diverse fasi del processo. Uno sguardo ravvicinato, partecipe, su una pratica da alcuni considerata crudele, ma indubbiamente meno dannosa della moderna pesca intensiva.
Bijedić, nel suo “Odavle Samo u harem”, è molto discreto nel ritrarre scorci e scene di quotidianità che raccontano un contesto sociale e politico in profondo cambiamento – quello del ripopolamento delle zone rurali della Bosnia – quale sintomo di guarigione dalle ventennali ferite della guerra.
Con “Anitya” Bonacina esplora lo Zanskar, tra la Cina e il Pakistan, costellato di villaggi, monasteri e tradizioni millenarie. “Ho vissuto con loro, in giorni di silenzio e senza una lingua comune percorribile”, ammette l’autrice, le cui immagini traducono a livello visuale tutta la spiritualità che sembra permeare luoghi ed abitanti, in un vorticare di sguardi, mani giunte e riti sempre uguali a scandire il tempo tra le albe e i tramonti.
A problematiche fortemente legate all’attualità si rivolge il lavoro di Di Pietro (“Turkanas resilience”), il quale ha raccontato gli effetti della siccità e dei cambiamenti climatici ritraendo le strategie di sopravvivenza, e resilienza appunto, messe in atto da una comunità stanziata in una delle regioni più povere del Kenya.
Le immagini di Montefinese (“Stuck in Serbia”) danno vita ad uno dei progetti più crudi presenti nella selezione, per forma e contenuto. L’UNHCR stima in settemila le persone bloccate in Serbia, lungo la rotta balcanica che conduce in Europa. Il 60% di loro è composto da minori non accompagnati. Assiepati in magazzini dismessi nei pressi delle stazioni ferroviarie, vivono in condizioni al limite dell’umano. Montefinese documenta puntualmente ogni aspetto della loro vita, vissuta nell’attesa di poter raggiungere paesi come Francia, Italia o Inghilterra mentre, attualmente, i confini con Ungheria e Croazia rimangono ancora chiusi.
Venendo alle menzioni speciali, Frigieri (“Surfing Iran”) analizza la simbolicità spaziale di un luogo antropologico, la spiaggia, attraverso un ibrido interculturale quale il fenomeno del surf al femminile in Iran.
“Una storia di amore e di perdita” di Mele è il racconto privato e appassionato degli ultimi giorni di vita di una persona cara. Un approccio intimo – perfettamente reso attraverso un B/N sfocato e trascendente – al concetto stesso di reportage, alieno rispetto al modus comunicandi impetuoso e sensazionalistico di un certo tipo di universo mediatico.
Ne “Il mondo di Dainaly” Ranalletta riesce abilmente, attraverso un sapiente uso di riflessioni e il ricorrere della dicotomia interno/esterno, a restituire alla luce ciò che spesso è negato alla ribalta e alla comprensione dei più. Convince nel tentativo di sottrarre la definizione di autismo alla sua dimensione indecifrabile, oscena – da obscenus, fuori dalla scena – per rivestirla di intima dolcezza. Puntellano la narrazione le immagini dell’universo circense, che da regno di massima finzione assurge a teatro di vita e quotidianità.
Infine, ci preme ringraziare ognuno dei numerosi partecipanti al bando. L’elevato numero di portfoli sottoposti e l’alta qualità degli stessi, hanno reso piacevolmente ostico il compito della giuria di convergere su una rosa di nomi, necessariamente, tanto ristretta.