Purtroppo, non è la prima volta che scrivo una notizia sulla scomparsa di un fotogiornalista, ma oggi quando ho letto il post in cui Vittorio Zambardino, il padre annunciava agli amici la morte di Antonio su FB, per qualche minuto ho fatto davvero fatica a concentrami su quello che mi accadeva intorno e che avrei dovuto fotografare. Il buio che c’era nella sala in cui mi trovavo è entrato nel mio cervello.
Per chi resta la morte non ha mai senso, ma una morte così, a 35 anni, nel pieno della propria vita sembra uno scherzo di cattivo gusto. E invece no, è tutto vero, stando alle poche notizie confermate dall’ambasciata italiana, Antonio si è spento a causa di un infarto durante una breve vacanza sull’isola di Phanghan in Thailandia, Paese in cui faceva base per la sua attività di fotogiornalista nel sud-est asiatico.
Avevo conosciuto Antonio nel 2009, grazie a una comune amica, Rosa Pugliese, che lo aveva intervistato per la nostra redazione per parlare di fotogiornalismo e del suo percorso professionale che, a soli 29 anni lo aveva portato a iniziare una collaborazione con l’agenzia Contrasto. Con il pensiero agli affetti di Antonio, così duramente colpiti, ho deciso di riportare qui sotto il testo integrale dell’intervista realizzata da Rosa per far capire a chi non lo conosceva che persona speciale fosse Antonio.
Io e Antonio abbiamo più o meno la stessa età, ma lui è uno di quelli da “tutto il giorno, tutta la notte, foto, mostre, libri, mostre, come un pazzo” per inseguire una passione. Un’energia incredibile e contagiosa che si percepisce dopo pochi scambi di parole e che probabilmente è l’ingrediente segreto delle storie che Antonio racconta attraverso le sue fotografie
Quando è che ti sei detto “ok, voglio fare il fotografo”?
Onestamente non è che avessi una grande idea di cosa volessi fare nella mia vita, e in effetti non ce l’ho neanche adesso. Tutto qello che so di avere è una grande passione. Me ne sono accorto quando frequentavo il liceo artistico ma forse il vero primo spunto è nato dalla mostra di Josef Koudelka nel ’99 al Palaexpo, a Roma. Forse è allora che ho deciso di iniziare la scuola di fotografia.
Quale scuola di fotografia hai frequentato?
Mi sono iscritto allo IED. Diciamo che l’avevo preso un po’ come “nel frattempo penso a cosa fare all’università”. Poi il corso, invece, mi ha coinvolto moltissimo, mi ha rapito. Nonostante non fosse l’ICP di New York, era un bel corso con ottimi professori e lezioni interessanti. Quindi mi ci sono buttato a capofitto, e a un certo punto ho cominciato a vedermi realmente come un reporter.
Hai iniziato a viaggiare?
A me viaggiare piace da sempre e in questo senso la professione che ho scelto è perfetta. Subito dopo aver finito la scuola di fotografia, nel dicembre 2004 ho accettato un progetto di volontariato per lo IUSF, Indiana University Student Foundation. L’obiettivo era andare ad Istanbul, ma sono finito in Israele, a Isfiya, 20km da Haifa. E’ stata un’esperienza importante durata sei mesi che mi ha permesso di conoscere meglio Israele, Egitto e alcune delle regioni circostanti.
E una volta tornato in Italia?
Tornato in Italia ho fatto domanda a Fabrica. Quell’anno Fabrica prendeva fotografi importanti, da tutto il mondo, per un grande progetto Benetton che si chiamava “occhi aperti”. Sono entrati nomi come: Olivia Arthur, Philip Ebeling, Ashley Gilbertson, Mikhael Subotzky.
Un mio ex compagno dello IED scelse il tema dell’energia e mi chiese di andare con lui in Azerbaijan. Accettai e lavorai con lui un mese, ma non ero soddisfatto quindi decisi di restare venti giorni in più e lì ho portato avanti un mio progetto senza i soldi di Benetton, l’interprete di Benetton e la macchina fotografica di Benetton. Ho fatto un lavoro sui profughi che poi è stato esposto a Teheran per la Biennale dell’Arte Fotografica nel 2008.
Sei stato tu a proporti?
No, un’amica che faceva l’agente propose più lavori di più fotografi.
E’ stata la tua prima esposizione?
In realtà avevo già esposto a Roma. Insiema a Tiziana Musi avevo fatto una mostra sulle affissioni pubblicitarie partendo dal fatto che quell’anno due grosse compagnie telefoniche avevano fatto una campagna pubblicitaria con pannelli che coprivano interi palazzi.
Questo dimostra anche come in fondo per trovare una storia non serve cercare per forza l’esotico in posti esotici…
Questo è un aspetto importante quanto difficile. Fare in effetti il giornalista prima del fotografo, scoprire che esiste una storia, verificarla e poi approfondirla è un problema che c’è perché moltissimi giovani fotografi hanno una buona preparazione visiva, però pochi di loro hanno la possibilità di frequentare una scuola. Io personalmente adesso ho un altro ritmo, ma per trovare un modo di entrare lavoravo come un pazzo tutto il giorno tutta la notte, foto, mostre, foto, libri, mostre. Non mi sono mai fermato.
Cercavi di arrivare alle agenzie?
Non sono mai stato frettoloso da questo punto di vista. Tornato da Israele sono andato a parlare con Enrica Scalfari dell’AGF che mi ha detto “vai a Perpignan e renditi conto di cosa stiamo realmente parlando, poi vediamo”. Il messaggio era chiaro: “sei a zero. Hai fatto la scola, ma sei a zero”. Intanto io facevo l’assistente a Maurizio D’Avanzo.
E a Perpignan com’è andata?
Un disastro la prima volta e un disastro anche la seconda, dopo l’Azerbaijan. Speravo di avere qualcosa di interessante, ma mi sono di nuovo scontrato con la realtà. Mancava la storia. Andare in un posto per raccontare un posto innanzitutto non è più necessario, e poi soprattutto è un modo vecchio di lavorare. Quando la fotografia era un’arte in esplosione e in esplorazione c’era bisogno di fotografia, adesso è il contrario. Adesso servono i contenuti. Tutte le piattaforme multimediali di oggi sono inutili se manca il contenuto.
A quel punto non ti è venuta la tentazione di mollare?
No, sono tornato a Roma e ho preso una decisione. Ho chiamato Francesco Zizola e gli ho chiesto di collaborare, così è stato. Sono andato da lui in studio dove mi ha presentato Claudio Palmisano con cui dirige il 10b photography. Io me la cavavo bene con Photoshop, quindi c’è voluto poco. Mi sono fatto una bella gavetta in post-produzione e dopo due mesi mi hanno coinvolto in 10b. Non c’era niente allora, adesso è una dei più noti laboratori fotografici di Roma. La cosa più bella era che arrivavano davvero tutti i fotografi d’Italia, i più bravi da Contrasto a Grazia Neri. Io lavoravo sulle loro foto e finalmente potevo vedere come si costruiva la storia.
Osservare le foto di quelli “bravi” è davvero una scuola?
E’ l’unico modo. Si inizia copiando, imitando uno stile e poi cambiandolo in qualcosa di più personale. Io ancora credo di risentire di multiple influenze. Per me vedere Siracusa, Venturi, Zizola, Pellegrin, Turetta è stato uno stimolo continuo a migliorare.
Per quanto tempo ti sei occupato di editing?
E’ stata un’esperienza molto bella che si è conclusa l’estate del 2007. A questo punto sono andato a Savignano sul Rubicone, al Festival della Fotografia. Tornato a Roma non avevo ancora niente per le mani, quindi ho fatto l’unica cosa che potevo fare: andare a lavorare per la concorrenza di Palmisano, da Daniele Coralli. Adesso ho ottimi rapporti con tutti e due. Palmisano e Coralli sono i due laboratori che rivendicano a Roma il primato sulla stampa Photoshop e Ink Jet. Avevo raggiunto un buon accordo, perché Coralli mi lasciava anche del tempo libero. Quindi quell’anno con un laboratorio un po’ più raccolto, finalmente potevo anche uscire fuori.
E come riuscivi a dedicarti al reportage?
Mi sono trovato una storia vicina, sull’ospedale ex Regina Elena divenuto sede di alcune famiglie sostenute da tre movimenti per i diritti ad abitare. Dopo un mese di trattative ho trovato un accordo con loro e ho creato un sito internet in cui ho messo i miei reportage su Israele e l’Azerbaijan. Avevo un buon biglietto da visita. Ho lavorato quasi due mesi, e finalmente avevo una storia.
Quindi sei rimasto per un po’ a Roma?
Sì fino al Capodanno 2007 quando ho visto al Tg gli scontri di Pianura, a Napoli. Già dall’estate prima volevo andare in Campania e fare un lavoro sulle discariche, ma non trovavo la motivazione. Mi sono convinto guardando le immagini in tv e sono partito subito dopo. Facevo su e giù tra Napoli e il lavoro, no stop, fino a marzo. Un periodo intenso a dir poco.
Ne è valsa la pena?
Si. Il lavoro sull’ospedale fatto bene, stampato bene. Buona carta, buone foto, tutto preciso, tutto medio formato. Lo stesso per il lavoro in Campania. Ho contattato cinque redazioni e sono andato a Milano. Al primo colpo ho venduto a Vanity Fair il servizio sulle discariche, ho accettato subito naturalmente.
Come ti sei sentito?
Camminavo per Milano saltellando, con la musica nelle orecchie ho camminato a piedi da Piazza Cadorna a Pagano, dove sta D La Repubblica delle donne. Immagina quando poi anche Panorama ha comprato il secondo servizio sull’ospedale!
Nel frattempo ho conosciuto Renata Ferri, photoeditor di Io Donna e di Contrasto per 15 anni, che ha apprezzato molto le mie fotografie. Sono tornato a casa contento. A quel punto si poneva una scelta necessaria, anche perché mi chiamavano per i primi lavori.
Quindi hai lasciato la bottega e ti sei messo in strada?
Si, esatto. Sono andato per la mia strada. Ho lavoricchiato per un paio di settimane e sono andato al Festival della Fotografia di Roma dove c’era Denis Curti. Denis in quell’occasione mi ha indirizzato a Giulia Tornari e gli ho raccontato tutto quello che avevo fatto fino a quel momento. Gli ho detto che mi sarei trasferito a Napoli e così è iniziata la collaborazione con Contrasto. A Napoli ho cavalcato l’onda Gomorra continuando anche il lavoro sulle discariche. Poi ho fatto un altro reportage sui neomelodici, situazioni assurde ma molto divertenti. Anche questo servizio è stato pubblicato.
E questo che vuoi fare nella vita?
Citando Mastroianni, sempre meglio che lavorare.