Buio e luce a Samos

Il campo profughi di Samos raccontato dall'interno attraverso un progetto fotografico che vuole sovvertire la narrazione riservata ai migranti. Dando a loro stessi gli strumenti e la possibilità di raccontarsi in prima persona, rivelando da un nuovo punto di vista gli orrori dei centri di prima accoglienza sulle isole greche ed in particolare a Samos.

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Buio e luce. Da una parte l’agghiacciante situazione di quello che dovrebbe essere un centro di prima accoglienza e dall’altra la speranza di un futuro migliore, di un’occasione.

Le fotografie, primo atto del progetto “Attraverso i nostri occhi”, curato da Nicoletta Novara, sono state scattate da minori tra gli 11 e i 17 anni costretti per mesi se non a volte anni, nell’Hotspot dell’isola greca di Samos.

Si tratta di oltre 200 scatti realizzati con Kodak usa e getta a colori durante il 2019 e l’estate del 2020. I giovani fotografi sono tutti ex studenti e attuali studenti e studentesse del centro giovanile Mazí aperto dalla Onlus Still I Rise per garantire un posto sicuro e un’istruzione ai minori del campo.

Gli obiettivi del progetto fotografico sono molteplici, primo fra tutti dare a questi giovani la possibilità di raccontarsi in prima persona senza il filtro di un narratore terzo. Sono loro infatti le uniche persone che hanno veramente diritto di raccontare gli abusi le violenze e la privazione dei più basilari diritti in quello che dovrebbe essere il primo porto sicuro, in Europa e che invece assomiglia più a un lager che non a un centro di prima accoglienza. E questo non vale solo per Samos, ma per tutti gli hotspot delle isole greche. L’annientamento psicologico e le terribili condizioni sanitarie in cui migliaia di persone sono stipate fanno orrore sopratutto quando realizziamo di essere nella civilissima Europa.

Gli studenti, prima di realizzare gli scatti, hanno seguito un corso di fotografia imparando a scattare con una macchina digitale rigorosamente in modalità manuale, a conoscere le regole della composizione, a giocare con la luce e il movimento, a editare i propri scatti con un programma professionale e lavorare sul ritratto e sulla street photography.

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“Questo bambino è il mio vicino di tenda, la sua famiglia è diventata anche la mia famiglia” Kutada, 17 anni, minore non accompagnato.

Il campo è raccontato dall’interno e i suoi problemi sviscerati ad uno ad uno: le code interminabili senza la possibilità di distanziamento per riuscire a prendere un pasto il più delle volte immangiabile tanto da far venire i conati di vomito, le lunghe attese per essere visitati dall’unico medico del campo, i container dei minori non accompagnati in cui vengono ammassati anche nove o dieci ragazzi costretti a dormire per terra con il pavimento rotto e la pioggia che entra dal soffitto. Per non parlare delle latrine e delle docce, del fango, dei ratti da cui scappano anche i gatti, della “giungla” dove intere famiglie vivono per mesi senza acqua, elettricità o servizi igienici.

Le fotografie scattate nell’estate del 2020 ci raccontano cosa significhi vivere in un campo profughi durante una pandemia e dopo che sette incendi hanno devastato quelle che chiamano case.

Uno degli obiettivi del progetto è quello di far conoscere, quindi, questa terribile situazione, ma è anche quello di far conoscere meglio i ragazzi e le ragazze che hanno realizzato questi scatti chiamandoli per nome.

Una delle sofferenze più grandi che viene loro inflitta è infatti quella di essere classificati come “rifugiati”. Una parola che li definisce con un accento negativo e che li allontana dall’essere semplicemente persone. “We are humans” sono soliti ripetere.

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Una foto di Arif che mostra come le persone all’interno del campo abbiano allestito piccoli negozi per sopravvivere. Arif, 14 anni

Gli studenti non solo hanno scattato fotografie all’interno del campo, ma anche della loro vita sull’isola che parlano di resilienza e resistenza, della speranza che ancora conservano per un futuro migliore in Europa. Ci raccontano, insomma, senza però dover dare giustificazioni, perché sono qui.

Attraverso i nostri occhi è diventato una mostra che ha girato Europa e America attirando l’attenzione di quotidiani come The Guardian e The Washington Post. Il progetto è stato poi trasformato in un libro pubblicato dalla casa editrice Rizzoli e Still I Rise ne ha fatto una web-serie di 6 puntate pubblicata sui canali social della Onlus.

Il prossimo step del progetto sarà in Siria, con gli studenti di Ma’an il centro che Still I Rise ha aperto nella provincia di Idlib. L’intero ricavato del libro sarà infatti destinato agli studenti di Ma’an che vivono da quando sono nati nella guerra e nel terrore. 

A questo link è possibile acquistare il libro e contribuire al progetto.

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“Quando sarò grande voglio diventare una bravissima avvocatessa, la migliore: sarò un punto di riferimento per le donne e sarò loro d’ispirazione!” Zakia, 16 anni.