
Ispirato da un intrinseco dualismo tra chiaroscuri, l’ultimo progetto di Alex (vincitore del Premio della Giuria al Toscana Foto Festival Lettura Portfolio “Le Clarisse” 2014) risalta subito per l’intensa ricerca di contrasto tra luci ed ombre. C’è tanto altro, però, oltre l’applicazione empirica di questo principio. Luci ed ombre sono anche quelle simboliche delle tante storie che Alex ha raccontato tramite lo strumento del reportage: i conflitti e le loro pesanti eredità in Medio Oriente e Latinoamerica, le contraddizioni endemiche di quelle periferie del mondo costantemente indagate dal filtro documentario della fotografia.
Cominciamo con la più classica (e forse fastidiosa) delle domande di rito, ovvero quella che interpella il principio della tua carriera. Nel tuo ultimo lavoro, “Inseguendo la luce”, traspare fermamente l’interesse per un contrasto netto, quasi dicotomico, tra luce ed ombra. Avendo cominciato dal cinema e dalla fotografia di scena, nettamente sbilanciata verso lo studio e la misurazione della luce, credi che questo tuo ultimo progetto abbia in qualche modo chiuso un cerchio?
In realtà l’ha chiuso per riaprine subito un altro. L’esperienza del cinema ha segnato fortemente il mio modo di guardare e oggi, come sempre del resto, ma oggi di più, non basta solo effettuare una corretta esposizione od una buona composizione, non è sufficiente utilizzare un incisivo bianco e nero oppure enfatizzare il colore per avere una buona foto, ma occorre che la foto racconti qualcosa. La fotografia come strumento del racconto e del ricordo diviene mezzo di comunicazione così come giudice di ciò che accade e testimone implacabile del mondo. È impronta del nostro sguardo e rappresenta tutto ciò che ci ha coinvolto ed emozionato.
Molto banalmente, provo a interrogarmi (e interrogarti) sul significato di quest’idea di contrasto. Hai ricercato l’evocazione di una particolare simbologia nella messa a punto di quest’opposizione manichea tra chiaroscuri?
In questo lavoro c’è l’ispirazione alla filosofia orientale, alla visione taoista della vita. Dove c’è vita c’è morte e viceversa e in questo lavoro non c’è luce senza ombra e non c’è ombra senza luce. Io sono sempre alla ricerca ossessiva di cose da guardare, e mi piace dividere la mia vita fotografica, da una parte il lavoro, dall’altro la ricerca, ed è li che mi piace sperimentare di più. Quando mi trovo nella devastazione delle zone di guerra dall’Iraq al Libano o in Sud America, il senso di impotenza che ti porti dentro quando vivi certe realtà così lontane per noi abituati a vivere nella “parte buona del mondo” fanno si che le mie fotografie siano meno formali possibili per non togliere forza al contenuto. È quando esco di casa e vado con la macchina fotografica sempre al collo a cercare ispirazione dalla realtà per guardarla, non come possono tutti ma come voglio interpretarla io.
Soffermiamoci sul ruolo dei personaggi. Mi ha affascinato molto il fatto che (nella mia personalissima percezione del tuo lavoro) i soggetti si muovano ma non comunichino la sensazione del movimento. Sembra un’ovvietà, dato che il principio dell’azione fotografica è quello del congelamento di un istante, ma in questo caso mi sono tornate alla mente scene e soggetti da fotografia metafisica. Credi sia un’elucubrazione in qualche modo fondata?
In questo lavoro ho voluto ribaltare il concetto del momento decisivo. E se il momento decisivo fosse in realtà la decisione del momento? Non ci si puo sempre trovare al posto giusto al momento giusto, quindi spesso, forse direi in tutte, trovato il posto giusto non ho dovuto fare altro che attendere il momento perfetto.

“Inseguendo la luce” è, in qualche modo, un lavoro che interpella il concetto di street photography. Qual è stato il tuo approccio nel superare quello che è forse il più grande ostacolo presentato dalla street, ovvero cogliere l’ordinarietà e la banalità della vita rendendola appetibile allo sguardo esterno?
Credo fortemente che il reportage e la Street siano senza dubbio il genere che meglio esprime il mio concetto di Fotografia: mezzo per raccontare le mie esperienze di fronte a ciò che mi circonda. Attraverso l’obiettivo della macchina, la fotografia mi dona la possibilità di discriminare, enfatizzare ed evidenziare la realtà. Solo così posso uscire dall’ordinarietà e trasformare una situazione quotidiana in straordinaria magia.
Torniamo ai principi del tuo lavoro. Tu sei stato allievo di Franco Fontana, ma hai finito poi con l’abbracciare una strada completamente divergente dalla sua, ovvero quella del reportage. Quale peso ha avuto un tipo di fotografia per certi versi più pittorialista nel tuo approccio “sociale” alla questione?
Quando incontrai Franco per la prima volta, non mi sarei mai immaginato l’impatto che avrebbe avuto nella mia vita. Nel 2000 partecipai ad un suo workshop, rimasi colpito dal suo modo unico di esporre i concetti legati alla fotografia, concetti alquanto lontani dai miei, visto che in quel momento mi occupavo di fotografia commerciale. Quella fotografia non mi apparteneva più, cosi uguale alla mia vita, cosi delineata, perfetta e noiosa non era più la mia, volevo sentirmi vivo. Ripensai alle chiare parole di Franco Fontana mentre guardava i miei lavori dopo qualche tempo dal nostro incontro: “Tu sei nato per raccontare storie”. Diventai padrone della mia vita e delle mie scelte. Lasciare il certo per l’incerto metteva paura, quelle paure che, come mi disse Franco, erano riposte nel buio di una stanza, bastava accendere la luce e seguirla senza fermarsi. E da li ho girato il mondo, in pace e in guerra, vivendo e raccontando storie, investigando la natura umana e provando sulla mia pelle che ogni fotografia è un momento privilegiato, trasformato in un piccolo oggetto che possiamo conservare, rivedere e far vedere, è la nostra visione del mondo.
Domanda generica che, solitamente, ogni reportagista si vede posta nella maggior parte delle interviste. Verso la fine degli anni Novanta hai cominciato a lavorare con L’Espresso: qual è stato il tuo approccio al concetto più immediato, e forse più utilitaristico, della news, anche in relazione alle linee editoriali dettate dalle committenze?
Da fotoreporter sento che il cambiamento rispetto a quando ho iniziato all’Espresso è più economico che sociale. Sono sfuggito alla logica della news per dedicarmi a progetti di medio e lungo termine perchè essere un fotoreporter significa trovarsi in sinergia con la vita, percepire i rumori, gli odori, i colori, catturare gli sguardi, vivere con travolgente intensità il mondo. Si può raccontare solo dopo aver assorbito. E oggi è sempre più difficile avere tempo e spazio per raccontare storie, sempre a fare i conti con le logiche di mercato che vorrebbero un reportage bello confezionato, cotto e mangiato e magari a buon prezzo.

Tu hai lavorato molto in America Latina, un campo, da sempre, florido per la fotografia sociale. Anche qui, per certi versi, riecheggia l’opposizione tra chiari e scuri: non si tratta di paesi in guerra (se escludiamo le guerriglie interne tra narcos o tra stato e gruppi paramilitari come FARC o Sendero Luminoso) ma di realtà che vivono di contraddizioni endemiche in cui coesistono le luci della bellezza di luoghi e culture e le ombre di povertà e criminalità. È questo ciò che ti ha spinto da quelle parti?
Un viaggio tra la capitale Bogotà e l’entroterra che mi ha cambiato intimamente. Un lavoro da inviato che mi ha tenuto impegnato dal settembre 2007 al febbraio 2010 e mi ha portato a contatto con una natura vergine, il potere mondiale delle pietre verdi ma soprattutto con la lontananza dalla vita familiare. Un’esperienza lavorativa e personale importantissima. In un Paese nuovo, il primo problema non trascurabile è proprio la comunicazione. E cosi, imparai da zero una nuovo idioma. Lo spagnolo. Affiancato e sostenuto da una compagna di vita instancabile: la mia macchina fotografica. Mi sono scontrato con l’esigenza di conciliare la mia cultura con usi e costumi del tutto nuovi, scoprendo giorno dopo giorno che la Colombia è un paese ben lontano da ciò che viene descritto al resto del mondo. E’ così che ho deciso di raccontarlo con i miei occhi. Occhi limpidi, scevri da ogni genere di condizionamento e pregiudizio. E forse è proprio questo l’ insegnamento più importante di questo viaggio: bisogna allontanarsi da tutto ciò che ci tiene incatenati alle convinzioni comuni. Ne esce il ritratto positivo di un Paese pieno di risorse, di luoghi meravigliosi e di gente piena di capacità creative. Di tutti i viaggi, forse è quello che mi ha coinvolto maggiormente segnando una crescita intima e personale davvero notevole, non solo fotograficamente.
Parliamo del progetto Cromosoma. Come e quando nasce, e quali sono le ragioni che l’hanno mosso?
In questi anni ho diretto Corsi e Workshop di Fotoreportage a Roma, Milano, Bogotá, Buenos Aires, al Toscana Foto Festival di Massa Marittima, all’Universitá di Roma Tor Vergata e da quest’anno all’Istituto di Stato per la Cinematografia e TV “Roberto Rossellini” Ho scoperto la passione per l’insegnamento e la volontà di condividere, con chi è appassionato come me, tutte le mie conoscenze proprio nell’esperienza Colombiana.
Circa 6 anni fa con una mia grande amica Flora Cianciullo abbiamo fondato un Associazione Culturale in un quartiere perifierico di Roma a Tor Bella Monaca. Un progetto che prevedeva l’insegnamento della fotografia come strumento per dimostrare che anche nelle zone piu difficili e abbandonate si puo fare cultura. Da un paio di anni insieme ai fotografi di Studio Cromosoma abbiamo reso il nostro progetto piu istituzionale, senza mai dimenticare che l’obiettivo primario è far avvicinare piu persone possibili alla fotografia in maniera seria e soprattutto sana.
Un’ultima battuta sui tuoi progetti futuri. Continuerai ad interessarti alla street, magari cercandone una sintesi col reportage e con la narrazione di soggetti specifici?
Non ho un programma specifico. Vivo la fotografia come un ossessione, ha plasmato il corso della mia vita, spingendomi a mantenere l’occhio sempre affilato come un rasoio che scruta la scena, esattamente come hanno fatto da sempre i grandi fotoreporter. La velocità con cui vediamo è la stessa con cui dimentichiamo e la fotografia è l’unico strumento che impedisce ai momenti importanti di svanire in un orizzonte senza fine. È il mezzo con il quale posso raccontare storie per essere sempre protagonista e non un semplice spettatore del mondo.
