Intervista a Riccardo Venturi

In una vineria al Pigneto, Riccardo Venturi ci ha raccontato perché ha scelto il mestiere del fotoreporter e perché il mondo non ha bisogno di fotografi part-time

Fotografia di Riccardo Venturi
Fotografia di Riccardo Venturi

Domanda di rito, com’è nata la passione per la fotografia?
Faccio questo mestiere a livello professionale dal 1989, prima ho studiato per un paio d’anni in una scuola di fotografia, ma ad un certo punto ho capito che quello che insegnavano non mi interessava, volevo fare reportage e non moda o pubblicità. Così sono andato via e ho cominciato a collaborare con una piccolissima agenzia dove ho imparato un mestiere. Forse ho iniziato in un sistema che oggi non funziona più, il mercato era diverso, si partiva dalle piccole cose e poi sono passato a fare dei lavori più approfonditi. E nel ’90 ho cominciato a fare i primi viaggi all’estero.

Perché dici che oggi non è più così?
Secondo me la grossa differenza è che prima dovevi anche un po’ provare a te stesso e ai tuoi clienti che eri in grado di fare dei lavori validi anche fuori dall’Italia.

 

Fotografia di Riccardo Venturi
Fotografia di Riccardo Venturi

 

Quand’è che ti sei sentito fotoreporter? Quello quasi da subito, già quando studiavo avevo capito la mia passione per il sociale. E’ stato facile scegliere da che parte andare e i riscontri lavorativi li ho avuti quasi subito, sono entrato in giro piccolo che è cresciuto col tempo.

Hai mai collaborato o fatto l’assistente per qualcuno?
No, mai. Ero molto presuntuoso, forse.

Avere uno stile è importante secondo te?
Cè tanto da dire su questo. Lo stile comunque c’è, anche se non vuoi, è naturale, spontaneo. Quando ti piace una cosa la fai in un certo modo e gli altri ti riconoscono. Altra cosa è quando vogliono importelo, come è successo negli ultimi dieci anni. C’è stata, secondo me, un’enorme contaminazione e un numero sempre crescente di giovani fotografi, per cui gli editor hanno sentito il bisogno di poter fare una distinzione. Ma non ho mai condiviso l’ossessione per lo stile, cercarlo per forza senza un processo naturale e spontaneo è una cosa che si vede e che a me non piace. Credo che nel reportage, alla lunga, prevalga la storia e non l’estetica. Non sono anti-estetica, dico solo che deve essere funzionale al contenuto.

 

Fotografia di Riccardo Venturi
Fotografia di Riccardo Venturi


Quindi le tue foto che cosa devono avere?

Io la vedo un po’ così, credo che una storia per essere ben raccontata è un po’ come una narrazione verbale o scritta in cui oltre agli accadimenti e ai fatti c’è il contorno. Ecco, credo che un buon reportage debba avere i contenuti, ma anche le atmosfere che sono importanti quanto la storia. E tutto deve essere ben raccontato.

E’ storia anche una singola foto?
Non credo, a parte le foto-icone. Ci pensavo l’altro giorno mentre ero ad una mostra e c’era un solo pezzo di Michelangelo Pistoletto, così da sola era addirittura insignificante. Ma se vai al Maxxi a vedere la mostra interamente dedicata a lui ti rendi conto di quello che aveva in testa questo artista. L’opera è un’insieme. Un autore, o chiunque abbia qualcosa da raccontare, lo fa attraverso un percorso. Così il fotografo, se è un bravo fotografo riesce a ricreare un percorso ed è l’insieme che valorizza il suo lavoro. I pezzi più belli devono essere sostenuti da quello che è successo prima e dopo.

 

Fotografia di Riccardo Venturi
Fotografia di Riccardo Venturi

 

Cosa pensi invece della fotografia multimediale?
Io credo di essere stato uno dei primi a sperimentare. Le mie primissime mostre nel ’95 erano fatte di foto e anche di proiezioni. Non sono assolutamente contrario, anzi mi interessa molto. Il problema della fotografia multimediale è un po’ altro secondo me. Il multimedia è da una parte il videoclip, dall’altra il documentario – un prodotto che esiste da anni con gente brava che sa farlo benissimo e l’improvvisazione non funziona – e poi c’è la videoarte. La fotografia multimediale deve stare tra queste tre cose, senza diventare nessuna di queste. E’ ancora un ibrido.

Quindi il futuro del fotogiornalismo qual è?
Sta diventando sempre di più una professione culturale. Il fotografo è sempre di più un operatore culturale e questo è un bene, un arricchimento del concetto di fotografia, ma credo che non tutti possano farlo.

Cosa diresti ad un ragazzo giovane che volesse iniziare questo percorso?

Di lasciar stare. A parte le motivazioni ovvie, deve entrare nell’ordine delle idee che per i primi 10-15 anni della sua vita debbano essere immolati alla fotografia. Deve fare un investimento totale, anche perché non abbiamo bisogno di fotoreporter part-time.

C’è qualche tuo lavoro a cui sei particolarmente legato?

Come sempre è l’ultimo nato, un lavoro sulla Libia che sto ancora portando avanti. Sono in partenza di nuovo per Misurata.

 

Fotografia di Riccardo Venturi
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